Associazione Culturale Parentesi

Fondata a Messina nel 1989.- “Parentesi” Rivista bimestrale di politica, economia, cultura e attualità diretto da Filippo Briguglio. Reg. Trib di Messina 18/02/1989. Iscritto nel Registro Nazionale della Stampa con n°3127 Legge 5881 n° 416.

“Parentesi” Le nostre interviste – SOMALIA… OPERAZIONE “IBIS”…

Un uccello tipico della zona, presta il suo nome alla missione italiana

di Filippo Briguglio

Giovanni Sturniolo, 22 anni, militare di leva nel 186^ reggimento paracadutisti “Folgore” di Siena, ci dà una testimonianza diretta della sua esperienza in Somalia.
Come si è vissuto e come si vive laggiù oggi, al di là della recente querelle diplomatica Italia-ONU?
Perché ragazzi poco più che ventenni hanno scelto di partecipare ad una operazione che non ci tocca direttamente? Per spirito di eroismo, per sentito patriottismo, per provare emozioni finalmente diverse? O che altro?
… E come si ritorna dalla Somalia? Dopo aver vissuto la miseria, la sofferenza, la morte di una popolazione, vittima di cosa e di chi, sopraffatta da eventi che, in Somalia come in Jugoslavia, rimangono oscuri ed inspiegabili alle soglie del 2000?

E’ tornato in questi giorni dalla Somalia. Quasi tre mesi vissuti in quel lontano corno d’Africa per “ridare speranza”, per svolgere una operazione umanitaria in un paese che, in realtà, è in guerra. Emozioni, impressioni, stati d’animo che rimarranno per sempre nella sua vita e in quella dei ragazzi come lui, figli della società del benessere e del consumismo, e catapultati, anche se per libera scelta, nella guerra.
Una guerra che, per assurdo, scoppia per riportare la pace.
Una guerra che, purtroppo, ha colpito anche noi italiani direttamente con i nostri feriti, alcuni menomati, che si porteranno addosso per sempre il segno della altrui sofferenza che essi volevano lenire, ed i nostri morti, tre ragazzi che, improvvisamente sono diventati i figli di tutta una nazione attonita, furiosa, impotente, trovatasi di fronte, improvvisamente e drammaticamente, ad una situazione reale che non era quella sino allora descritta. Una nazione che, alla luce dei fatti, si è divisa tra chi sostiene che si deve restare laggiù in nome di quello spirito umanitario che ha procreato l’operazione, e chi invece sostiene che i nostri 2500 uomini devono tornare a casa perché la Somalia, così e a queste condizioni, a un prezzo così alto, a chi serve e cosa ci riguarda?
Ma al di là delle polemiche da tavolino, resta il fatto che laggiù si vive adesso in continuo pericolo e, ormai, sono nettamente mutate le condizioni ambientali e di sopravvivenza. Se quello che ha motivato la Nazione Italia a partecipare ad una operazione umanitaria non è più, o e stato distorto, è doveroso adesso domandarsi se il gioco continua a valere la candela, soprattutto quando non possiamo fare a meno di riflettere nell’osservare le immagini che quotidianamente scorrono sugli schermi televisivi e quegli uomini, poco più che ragazzi, che sono lì, e che ancora vanno, ma sicuramente non per avere scelto di ritrovarsi, giocoforza, novelli rambo alle soglie del 2000. E che, qualunque sia il motivo della loro scelta meritano tutto il nostro rispetto e la nostra ammirazione. Noi tutto avremmo fatto o faremmo altrettanto?
Giovanni ha scelto di rimanere in Somalia quasi tre mesi. E alla luce dei fatti 83 giorni laggiù sono tanti.
I suoi grandi occhi castani in un viso dimagrito (ha perso sette chili – ci confida sua madre), lo sguardo diretto e aperto di un ragazzo diventato uomo, parlano insieme alla sua voce ed al suo sorriso: non si sente un eroe e ci racconta – cosa che colpisce molto – con assoluta naturalezza e molta semplicità, senza ombra alcuna di trionfalismo, ciò che ha vissuto.
“Un’esperienza con diverse facce. All’inizio sembrava proprio una missione a scopo umanitario e poi, in realtà, da inizio giugno la situazione è cambiata ed è diventata anche pericolosa”.
“Ma come si sceglie di andare in Somalia e perché ragazzi tutti ventenni scelgono di andare? C’è stata una percezione del pericolo? E che tipo di messaggio vi hanno lanciato i vostri superiori nel proporvi la partecipazione, seppure volontaria, a questa missione?
“All’inizio eravamo presi dall’enfasi della novità, anche dalla curiosità di andare a vedere un paese lontano, un paese diverso. Era un’operazione a scopo umanitario e sicuramente eravamo “gasati”. Nella vita militare non ci sono tanti rapporti tra ufficiali e militari di leva; quando è partita l’operazione si diceva che dovevamo andare in Somalia a portare aiuti e si stava organizzando il tutto per partire. Chi ha scelto, solo volontariamente, non ha avuto neanche il tempo di pensare come era la vita laggiù, cosa potesse succedere. Si partiva e basta”.
Per l’operazione “restore hope” (come l’avevano battezzata gli americani, ossia ridare speranza),per noi operazione Ibis (dal nome di un uccello tipico della Somalia),l’Italia ha fatto le cose in grande ed ha inviato 2.500 uomini: la “Folgore” con un paio di reggimenti tra cui il 186^, che è partito a dicembre e praticamente ha costruito l’intero campo dove si è collocata la maggior parte delle forze italiane a Balad, che è un villaggio a 20 Km. Da Mogadiscio; la compagnia comando, la 14^ compagnia pantere, la 13^ compagnia di Siena con i V.C.C. (carri armati piccoli), la 12^ compagnia del 183^ reggimento di Pistoia arrivata in febbraio (quindi tre compagnie di fucilieri), la 5^ compagnia carri con i carri armati M60. Alla fine di maggio c’è stato avvicendamento di forze: il 186^ reggimento di Siena, guidato dal colonnello Celentano, è andato via ed ha lasciato il posto al 183^ di Pistoia (al quale sono rimasto aggregato), comandato dal colonnello Torelli, la 3^ compagnia carri ha sostituito la 5^.
I fucili in dotazione erano gli SCP 70/90 cal. 5,56 che sono stati dati a noi poco prima di partire.
L’addestramento dunque?
“Noi che siamo partiti alla fine di aprile abbiamo sperimentato la nuova arma accellerando i tempi di esercitazione quando eravamo ancora in caserma. Ma quelli che erano già là, hanno sparato con questo fucile per la prima volta in Somalia”.
E con il generale Loi che rapporti avete avuto?
“Il generale Loi veniva in visita ufficiale a vedere come erano sistemate le cose”.
Come eravate organizzati e come si svolgeva la vostra giornata?
“Eravamo alloggiati in una ex caserma dell’esercito somalo, della quale erano rimaste solo le mura, quindi in mezzo alla savana, a circa 500 metri dalla Strada Imperiale, costruita da Mussolini, che è poi l’unica strada che collega Mogadiscio ai villaggi più importanti. Eravamo sistemati in tende da otto posti; la sveglia era alle 5,30 e la giornata era scandita secondo i compiti assegnati a ciascuno: compiti ben precisi, ognuno sapeva quello che doveva fare, non c’era niente di avventato o qualcosa che si andava a fare senza sapere cosa fosse; ognuno aveva il suo compito e lo svolgeva. La cucina, tipicamente militare, era gestita da un numero adeguato di cucinieri che preparavano i pasti in orari svariatissimi per cui trovare a volte il cibo scotto o non caldo era compatibile con la gestione dei turni distribuiti nell’arco di più ore”.
Cosa facevate nel tempo libero in mancanza della libera uscita?
“Ci riunivamo a vedere videocassette o a bere il caffè tra amici”.
E i rapporti con le ragazze?
“Vietatissimi per il pericolo delle malattie, anche se ci sarebbe stata la possibilità di vivere love-story, perché nonostante tutto in fondo eravamo ben voluti”.
Avete sofferto la fame?
“Fino a maggio avevamo containers con le cose più disparate, poi abbiamo avuto difficoltà perché la nave che da Livorno portava il cambio ed il rinforzo dei containers ha avuto dei ritardi, è arrivata in ritardo a Mogadiscio e qui i containers sono rimasti bloccati perché, in quel momento, non si poteva più passare. Quindi non riuscendo a trasportarli sino a Balad abbiamo avuto alcuni giorni di difficoltà in cui, ad esempio, davano una bottiglia di acqua ogni tre persone ad ogni pasto”.
E veniamo al tanto discusso premio che vi hanno dato e su cui si è anche speculato sostenendo, da alcune parti, che chi ha partecipato alla missione lo ha fatto per denaro. Cosa vi hanno dato: un premio, una promozione?
“Io ho partecipato come caporalmaggiore. La diaria era di 115 dollari netti (120 lordi) al giorno: il 30% ce lo davano ogni mese in dollari, il resto ce lo hanno dato in lire italiane, fissando il cambio alla quotazione del 10 del corrispondente mese spettante come retribuzione, all’aeroporto prima di partire. E’ vero, non è stato poco e molti saranno stati anche allettati dal fattore economico che era qualcosa in più che ti faceva rimanere là. Ma sicuramente non il solo e certamente non il principale”.
Come erano i vostri rapporti con i Somali?
“A livello di bambini, di ragazzi, di persone anziane c’era un rapporto bellissimo: molti di loro parlavano la nostra lingua, ci hanno raccontato le loro esperienze vissute in mezzo agli italiani (c’era gente che era stata persino nell’esercito italiano), ci collaboravano come traduttori nei confronti degli altri”.
Quando sono cominciate a cambiare le cose?
“Quando sono iniziati i bombardamenti americani, ma già all’inizio di giugno con l’uccisione dei 23 pakistani durante una distribuzione a Mogadiscio c’erano state le prime avvisaglie, anche se in quell’occasione non vi era stato coinvolgimento degli italiani. Anche perché noi italiani siamo ben visti anche se, adesso, sembra strano dirlo. Basti pensare che alcuni somali con cui abbiamo contatto diretto si avvicinavano a noi e ci dicevano di toglierci lo stemma ONU”.
Quindi avete registrato una sorta di antipatia nei confronti dell’ONU, non nei confronti degli italiani? Avete tentato di capirne il perché?
“Esattamente noi diventavamo antipatici perché facevamo parte dell’ONU. Quanto a capirne il perché è difficile da comprendere: comunque sostanzialmente a causa degli Americani che con le loro azioni cercano sempre di capitalizzare un po’ tutto. E’ vero, hanno dato avvio alle operazioni, ma, in realtà, nel periodo in cui sono stato là, non li ho mai visti. Avevano una portaerei al largo di Mogadiscio e quando c’era qualche disordine si alzavano in volo con gli elicotteri e intervenivano. Ma a livello umanitario agivamo solo principalmente noi italiani”.
Mentre in Italia si stigmatizzava sull’assenza di un rappresentante italiano delle forze in Somalia nel gruppo di comando dell’organizzazione della missione, quali erano le vostre opinioni lì sul posto?
“Ci sentivamo inutili. E’ duro dirlo ma è così. Anche perché abbiamo visto che abbiamo agito come birilli. Lì adesso sparano ogni sera e sparano ancora. Si pensa che ci vogliano allontanare da Mogadiscio perché noi lì abbiamo tre punti di controllo: Demonio, Pasta e Ferro. E proprio lì, in quei punti di fuoco, facciamo un controllo selettivo sulle macchine che passano: passeggeri che vengono messi di lato e perquisiti, la macchina viene interamente controllata per vedere se ci sono armi. Ogni dieci – quindici giorni c’erano poi azioni di perlustrazione e rastrellamento: le operazioni Mangusta, svolta da noi (186^ reggimento di Siena) e Canguro che coinvolgeva l’intera forza italiana, parà, lancieri, carristi, bersaglieri”.
Con l’evoluzione negativa della situazione è stata opinione diffusa che il compito primario per il quale avete scelto di andare in Somalia fosse cambiato. Come e quando anche voi ne avete avuto la percezione? E cosa sin lì eravate riusciti a fare?
“Sì anche noi abbiamo percepito che il nostro compito era stato sviato. All’inizio si vedeva l’aiuto che portavamo. C’era un rapporto di collaborazione. Avevamo i nostri punti di distribuzione, così come le altre forze straniere avevano i loro; dei punti cioè prestabiliti e controllati nei quali, in tutta la sicurezza, collocavamo i camion con i viveri. Lì si formavano delle code interminabili di somali che si incolonnavano per prendere qualcosa da mangiare, acqua, pelati, biscotti, mais e farina soprattutto: insomma tutto quello che c’era. Oltre a questo c’era un gruppo di persone proprio nel 186^, di cui facevo parte anch’io, che andava i esplorazione ed in aiuto nei villaggi all’interno della savana.
Questo ci discostava dalle operazioni che si effettuavano a Mogadiscio che erano più aiuti con distribuzione di viveri, rastrellamento, controllo della situazione, perché bisognava acquietare la città per portare realmente, poi, gli aiuti umanitari. Ma tutto questo veniva impedito dalle forze di Aidid che sappiamo essere a Mogadiscio, vicino allo Stadio, e che è il padrone assoluto, come uno dei migliori boss in Sicilia, di quello che resta della città. E Mogadiscio era una bella città, viveva anche bene; adesso ogni casa è distrutta dalle bombe e dai proiettili della guerra civile”.
Quali sono state le vostre emozioni alla notizia della morte dei vostri tre compagni?
!Quella mattina io ero in quella operazione, il sottotenente Andrea Millevoi l’ho visto passare dentro un centauro per tornare al campo e poi purtroppo è morto nel campo, Pasquale Baccaro, il parà della 15^ compagnia stesso mio reggimento, dormiva a 50 metri da me. Abbiamo provato rabbia, tanta rabbia, sconforto, molto scetticismo”.
La stessa rabbia che noi impotenti incollati davanti ai televisori, abbiamo provato mentre una ridda di convulse notizie ed un turbinio di emozioni contrastanti ci sconvolgeva il cervello. Ma la vostra rabbia nei confronti di chi era?
“Dei superiori a livello di forza italiana, perché eravamo lì, avevamo un intero esercito praticamente schierato, eppure è successo quello che è successo”.
Distrazione, errore di valutazione dunque?
“Assolutamente no. C’erano dei cecchini piazzati: stavamo facendo un normale rastrellamento di armi, ne abbiamo fatti parecchi a Mogadiscio. Ci hanno sparato contro quando l’operazione era quasi terminata, si pensa perché stavamo andando a trovare un posto dove c’erano parecchi armamenti e quindi hanno cercato di allontanarci usando il cecchinaggio, l’unica loro arma. Infatti, quando uscivamo di scorta, una delle tante cose che ci raccomandavano era di guardare i tetti, di stare attenti alle postazioni perché usano la guerriglia, non vanno mai in scontro aperto. Molti dopo che le bombe erano state gettate sul check-point Pasta si sono resi conto che eravamo in mezzo al fuoco aperto: ci si è messi a sparare, ci sono stati numerosi colpi di mortaio, elicotteri che sorvolavano la zona e sparavano. E’ stato il caos: non esisteva più ragionamento d’azione, di operazioni, non si capiva più niente. Si vedevano le donne passare con i fucili, bambini che facevano da scudo mentre i mortai sparavano, i carrettini con gli asini che al posto dei bidoni dentro i quali portavano di solito l’acqua avevano i mortai. E allora veniva rabbia: perché siamo andati là, a 8.000 km. Da casa a portare aiuti, e invece vedevamo persino le donne che camminavano col Kalashnikov. Abbiamo fatto una ventina di rastrellamenti e abbiamo solamente recuperato armi vecchissime praticamente inutilizzabili, mentre le armi migliori le escono soltanto quando dicono loro. In parole povere, praticamente, ci fanno trovare solo quello che vogliono”.
Eventi drammatici, terribili per ragazzi tanto giovani, figli della società del consumismo, che in un sol colpo hanno impattato con la miseria, l’abbandono, la guerra, la morte. Emozioni forti, troppo forti, e sicuramente indelebili con le quali hanno convissuto giorno dopo giorno.
E la paura?
“In quei momenti tantissima. Ma il giorno in cui ho avuto più paura è stato quando mi è capitata un’imboscata al mercato di Mogadiscio, dove ci hanno tirato sassi, ci hanno sparato addosso. Stavamo andando alla CEFA (organizzazione per gli aiuti umanitari in tutto il mondo) quando abbiamo incontrato sbarramenti fatti di massi e ruote di camion bruciati, stavamo per tornare indietro ed hanno cominciato la sassaiola. Ci siamo appostati in difesa per vedere se arrivava qualche altra scorta in nostro aiuto e ci hanno sparato. A quel punto siamo montati sui nostri VM (veicoli medi che sono mezzi scoperti), abbiamo sparato impauriti alcuni colpi per allontanare quelli che ci stavano sparando e siamo scappati. Siamo tornati all’accampamento atterriti”.
Come vi giungevano le notizie che venivano riportate in italia?
“C’era solo radio Ibis che dava informazioni, i giornali, almeno da noi, arrivavano con due- tre giorni di ritardo. Ma quello che leggevamo era scritto in maniera non propriamente reale, da giornalisti che non vivevano direttamente quelle esperienze”.
Cosa avresti voluto dire se ti fosse stato possibile esercitare un diritto di replica a quello che impropriamente era stato riportato?
“Avrei detto loro di provare direttamente a essere messi là di scorta quando si attraversava Mogadiscio, a essere messi dentro un carro quando centinaia di proiettili ti piovono addosso”.
L’amor patrio cosa è per te? L’hai provato? Hai vissuto il desiderio di essere italiano e di affermarti come italiano e di difendere la bandiera italiana?
“Si, questo si: là c’erano canadesi, francesi, pakistani, coreani, americani. C’era un po’ di campanilismo (è vero) tra i diversi eserciti, quindi l’amor patrio finiva sempre con l’emergere; soprattutto era rinfrancato dal fatto che quando passavamo per Mogadiscio tutti i somali, i bambini ci gridavano dietro “italiano, amico, acqua”; ci sentivamo veramente le persone che aiutavano questa gente”.
Qual è la cosa che ti ha impressionato di più, l’immagine che ti è rimasta particolarmente impressa nella mente?
“E’ difficile dire che cosa mi ha impressionato di più, perché non ho avuto ancora il tempo di realizzare. Non c’è qualcosa in particolare che colpisce, è il tutto che è qualcosa di incredibile. Particolarmente impressa, invece, mi è rimasta l’immagine di quei bambini che ti corrono dietro, correvano all’impazzata dietro i camion chiedendo “bio, bio”: acqua!”
Potendo esprimere un desiderio cosa vorresti che succedesse adesso?
Desidererei la cattura di Aidid, perché realmente è lui il vero problema di Mogadiscio. E’ un bandito con le proprie bande che cerca di ostacolarci. Se ci fosse un’azione, un intervento massiccio di guerra di tutti gli eserciti stanziati lì, penso che ciò potrebbe avvenire, si andrebbe a debellare il tutto; ma realizzare questo è estremamente difficile perché lui si ripara dietro donne e bambini ed è questo che frena l’intervento militare”.
Torniamo un momento indietro. Hai detto che il tuo reggimento ha lasciato la Somalia a maggio: e tu perché hai scelto di restare oltre i termini considerato che il servizio militare è prevalentemente vissuto come un’agonia che prima finisce è meglio è? Qual è stata la cosa che ti ha allettato di più e che ti ha indotto ad allungare la ferma di tre mesi?
“E’ vero avrei dovuto congedarmi il 4 maggio. Ma quando a gennaio ho scelto di raffermarmi per tre mesi (la scelta si deve fare alcuni mesi prima del congedo) ho pensato che volevo provare l’esperienza di andare in Somalia. Avevo già partecipato ad operazioni in Sicilia, a Palermo, coi vespri siciliani, per cui già sapevo come si vive in tali circostanze. Per cui quando ho scelto di raffermarmi da quel momento ho pensato solo di andare in Somalia per aiutare quella gente, per vedere come si viveva veramente laggiù dal momento che noi vediamo solo le immagini dei telegiornali: ma vivere in diretta è cosa ben diversa. Con lo stesso spirito col quale sono partito, quando ho visto che c’era la possibilità di farlo, sono rimasto: ci siamo così resi conto che ci sono delle parti del mondo dove la civiltà è praticamente sconosciuta. E quella gente va aiutata, esseri umani come noi che nel 1993 vivono ancora in quelle condizioni di miseria, sporcizia, abbandono soprattutto nelle zone interne. Gente che suscita commiserazione, quasi pietà. Certo non avrei mai immaginato quello che da metà giugno in poi è invece accaduto!”
Col senno di poi, ritorneresti adesso laggiù? E perché?
“Se mi capitasse la stessa condizione di aprile, fine maggio, allora ritornerei.
Era un periodo denso di soddisfazioni, perché realmente aiutavamo quella gente. Adesso no, c’è solo guerriglia: pochi aiuti e molta guerra, più scontri armati che aiuti umanitari”.
Ti senti arricchito da questa esperienza?
“Si, sicuramente. Ho vissuto tre mesi particolari della mia vita. Non avrei mai pensato di convivere con un fucile; eppure lo avevo sempre con me: ci dormivo, andavo al bagno, mi lavavo, mi facevo la barba, facevo tutto. Lasciarlo è stata più una liberazione che un rimpianto”.
Ritornando in Italia, qual è stato il tuo primo pensiero?

“Casa! Una gran voglia di ritornare a casa, di ritornare alla civiltà”.

 

Filippo Briguglio

“Parentesi”3)anno V n.22
Giugno- Luglio 1993

Il Presidente

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