Associazione Culturale Parentesi

Fondata a Messina nel 1989.- “Parentesi” Rivista bimestrale di politica, economia, cultura e attualità diretto da Filippo Briguglio. Reg. Trib di Messina 18/02/1989. Iscritto nel Registro Nazionale della Stampa con n°3127 Legge 5881 n° 416.

” Parentesi” I nostri servizi – Una mattina al mercato…

di Filippo Briguglio

Mini viaggio in un quotidiano che, tra improvvisazione e fantasia, colora la realtà dei nostri mercati senza storia. Immagini, suoni, colori.

In tutte le epoche ogni città ha sempre avuto uno luogo movimentato e caratteristico: il mercato. Che si trovi in centro o in periferia, all’aperto o al chiuso, in siti storici acquisiti e mantenuti nel tempo o sia allestito su furgoni itineranti, il mercato rappresenta, nella città, un attraente spaccato di vita quotidiana dove la spontaneità gioca il ruolo principale.
Non a caso, proprio al mercato, hanno rivolto la loro attenzione gli scrittori di ogni tempo quando hanno voluto raccontare il folclore e i tratti umani della città attraverso le sue vicende quotidiane, i costumi, le usanze, le scenette raccolte per strada.
Ogni mercato è simile ad un altro pur essendo, in molti aspetti, diverso.
Una tavolozza di colori, una ridda di voci, una babele di oggetti sono il denominatore comune di questi microcosmi dove l’espressione delle personalità sta nell’originalità delle cose strillate, della teatralità dei gesti.
Taluni mercati, nella molteplicità dei loro contenuti, trasudano una secolare tradizione e la loro fama varca il perimetro urbano. Sono quei mercati che fanno parte delle “cose da vedere” della città nella quale si trovano1: aggirarsi fra i banchi e le bancarelle, curiosare, non vuol dire soltanto concentrare in un unico luogo la ricerca di ciò che serve, ma può anche costituire un’esperienza di tipo turistico per il forestiero che li visita. Chi non ha mai sentito parlare, tanto per citarne alcuni, della Vucciria di Palermo, della Pescheria di Catania, del mercato romano di Porta Portese, dello Shangai di Genova?
Ma ci sono altre realtà dove il mercato, che non ha una tradizione alle spalle, è un’attività commerciale di routine. In quei luoghi “andare al mercato” è un rito per alcuni, per altri soltanto una fastidiosa necessità.
Tuttavia anche questi mercati possono avere, nella propria semplicità, una loro attrattiva che, in fondo, è sempre l’essenza stessa del mercato: rappresentare uno spaccato della vita della città.
Messina non vanta una grossa tradizione di mercati.
Sino alla seconda guerra mondiale sorgeva nella zona del porto la Pescheria. I grandi padiglioni di ghisa che la costituivano ospitavano non solo il mercato del pesce (“pescheria delle più ricche ed interessanti a vedersi” scriveva Gustavo Chiesi “per la grande varietà del pesce di cui è ricco lo Stretto, per la rarità e le curiosità ittiologiche…” ma anche ogni altra rivendita di generi alimentari. Tutta merce calmierata e controllata nella qualità dagli uffici dell’annona, inclusi i prodotti dell’agricoltura provenienti dal circondario, che trovavano lì la loro collocazione per la vendita. Successivamente, nel dopoguerra, la Pescheria fu sostituita dal Mercato alimentare generale di Via La Farina, ormai scomparso.
Oggi i mercati più “visitati” dalla gente che va a “fare la spesa” sono: San Paolino (alle Due Vie), Sant’Orsola (ex Casa Pia), il mercato coperto di Muricello, il Vascone.
I mercati messinesi non hanno niente che li renda particolarmente attraenti. Anzi.
Il mercato di San Paolino (così chiamato per la vicinanza all’antica chiesa di San Paolino o Santa Rita), ad esempio, è situato proprio nel cuore della città, alla confluenza di due arterie nevralgiche: via Cesare Battisti e via Santa Cecilia, che rimangono quasi completamente imbrigliate nelle ore di punta del mercato. Gli ombrelloni, alcuni alti, altri bassi, a volte grandi, a volte piccoli, sono appiccicati gli uni agli altri; la sporcizia si accumula accanto alle bancarelle col passare delle ore; gli stessi venditori lamentano di essere costretti a lavorare in condizioni precarie.
Tuttavia ugualmente i colori, gli odori, i rumori sono espressione della messinesità in un luogo popolare.
Le urla dei venditori risuonano stridule al di sopra della merce che fa, almeno superficialmente, bella mostra di sé; alle loro si aggiungono le voci dei “clienti” che “contrattano” i prezzi. Così, camminando tra “robba frisca, cca, piscata tutta quanta in matinata”, tra “un chilo di mele a 2.500 lire” e un “latriceddu e scarafuni” si entra nell’atmosfera nella quale si sviluppa il rapporto diretto venditore-compratore. Buoni affari e piccole fregature, mani che si incrociano, braccia che si agitano: le varie fasi del negoziare si intrecciano e si confondono scandendo ogni giorno, attraverso il ritrovato rito della vendita, il ritmo del tempo.
Il mercato di Sant’Orsola sorgeva, sino a qualche tempo fa, in una delle più pittoresche  piazze cittadine, la piazza di Casa Pia, dominata dal baluardo storico di Porta Grazia (retaggio dell’antica Cittadella);  “nella pittoresca piazza di Casa Pia è uno dei mercati popolari messinesi”  scriveva già Gustavo Chiesi “il mercato che ogni mattina si tiene è particolarmente consacrato alla verdura, alla frutta, di cui l’agro messinese è in ogni stagione ricchissimo e precoce produttore; ma non mancano i banchi e i carri, da cui si smercia e si negozia di un po’ di tutto, dalle chincaglierie alle cotonate, dai ferravecchi al ciarpame più lucido – raccolto dai rigattieri e dagli straccivendoli – al pesce…”
Spostandosi nello spiazzo attualmente situato alla fine della via Garibaldi, in prossimità di piazza Castronovo, il mercato ha mantenuto nella quasi interezza la sua peculiarità. Ma lo spazio assegnatogli, assai angusto per i volumi delle merci che vi si scambiano, penalizza fortemente l’esposizione della mercanzia e la convivenza dei tanti venditori costretti a lavorare gomito a gomito.
L’avventore che non abbia già un punto di riferimento – il suo fornitore abituale presso il quale egli si sente come in famiglia – viene assalito, catturato senza quasi avere il tempo di guardarsi in giro. La merce gli viene sventolata sotto il naso, il venditore gli “bannia” nelle orecchie. I commercianti si muovono indaffarati; taluni preoccupati, taluni allegri, ma sempre pronti a “rubarsi” i clienti. Tutto scatena sensazioni forti: i colori, l’insieme di olezzi sempre crescente che invade l’aria con il passare delle ore, le improvvisazioni strillate che fanno sorridere.
Ed in fondo è proprio tutto questo che lo riempie di effetti strani ma al tempo stesso stimolanti e affascinanti: il mercato diviene il luogo dove, ogni giorno, si rinnova la vitalità della gente che da esso viene coinvolta anche senza volerlo, e dove molte persone vivono la “quotidianità della città”. Un cenno a parte merita, nel nostro breve excursus, un altro mercato. Da un paio d’anni ogni domenica in via Catania, vicino all’ospizio di Collereale nei pressi del Gran Camposanto e di Villa Dante, spunta un mercatino.
È un mercato un po’ particolare: sembra quasi un “mercatino delle pulci”, in cui tutto avviene all’insegna dell’improvvisazione. Vi si trovano una gran quantità di cose che sembrano costituire un affare ma che, in realtà, il più delle volte, altro non sono se non oggetti che non si vogliono più2 e sui quali, grazie al mercato, ci si può guadagnare qualcosa.
Infatti vengono esposti un sacco di articoli del genere più svariato: radio, stereo, transistor3, registratori, telefoni, macchine fotografiche e poi divani, comodini, armadi, sedie, letti, credenze, tavolini, lampade, poltrone, quadri, chincaglierie e via dicendo. Oggetti che, a sentire chi li vende, da vecchi diventano antichi, da anonimi originali.
Ma questo mercatino della domenica è, per molti, anche un luogo di ritrovo dove poter chiacchierare e confrontare i propri interessi e, magari, improvvisarsi venditore tra i venditori, nello scambio di collezioni, di cartoline d’epoca o di libri, anche i più strani.
In questa cornice caratterizzata dal “di tutto un po’” si crea un ambiente nuovo, diverso, che esula dalla solita routine di tutti i giorni. Verso l’ora di pranzo il brusio si smorza; gli oggetti a poco a poco scompaiono e la via Catania ritorna ad essere avvolta soltanto dal frastuono dei clacson e dal rumore delle macchine che vanno verso Provinciale.
Il mercato svanisce, pronto a tornare la domenica successiva con nuove chiacchiere e tante novità.
Vivere la città, dunque, non vuol dire semplicemente abitarla. Usufruire delle sue strutture più o meno efficienti, guardare i suoi panorami più o meno belli, ritenersi quasi i destinatari naturali del suo patrimonio artistico.
Vivere la città ha un significato diverso, più profondo.
Vuol dire avere la voglia, la curiosità di “umanizzarla”, di osservare, di penetrare anche ciò che vi si muove intorno, di soffermarsi a considerare gli spaccati della vita di tutti i giorni, essenza stessa della quotidianità, ritenuti invece a volte talmente ovvi, talmente impliciti, da passare inosservati.
Vivere la città vuol dire, insomma, “guardarla”, senza limitarsi a “vederla”.

Filippo Briguglio

6)
“Parentesi” Anno III – n. 16 Nov. – dic. 1991
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