LA’ DOVE CRESCE LA MALVA
di Filippo Briguglio
Adagiato sulle pendici dei monti che lo riparano dai venti Malvagna è un piccolo centro collinare con una meravigliosa veduta sull’Etna che lo fronteggia. L’aria salubre, le testimonianze delle sue antiche origini, ritmi di vita tranquilli scanditi da abitudini gelosamente custodite, da tradizioni tramandate da padre in figlio fanno la storia di questo paese dell’alta Valle dell’Alcantara.
Era una limpida serata di un autunno appena cominciato. Un’aria piacevolmente frizzante accompagnava la salita verso il paese. Sulla sinistra il massiccio dell’Etna, “l’infaticabile ‘Agata’ la grande e mai vecchia donna dai capelli rossi”, si staglia maestoso contro il cielo e segue, silenzioso guardiano, il corso della strada dolcemente curvilinea. D’improvviso si para dinnanzi una montagnola, il “vulcanetto”, protagonista della leggenda di Malvagna. Si narra, infatti, che “tempo fa sul lato sud della piana c’era e tuttora esiste un piccolo vulcano spento, diviso a terrazze sparse per tutto il monte fino alla sommità del cratere, dove i contadini coltivavano la vite. Al centro del cratere v’erano enormi alberi secolari con rami così lunghi da intrecciarsi tra loro sino a creare un ampio mantello di ombra dove i contadini trovavano ristoro nelle pause del lavoro. Fu proprio in uno di quei rari momenti di sosta che videro, sulla cima del cratere, un ricco signore, con vesti pregiate, sopra una bianca giumenta intento a volgere lo sguardo spaziando in tutta la vallata, oltre le gole del fiume, sino al mare, per poi risalire gradatamente lungo il versante sinistro dell’Etna. Era così assorto e così triste che non si accorse del vociare dei contadini che, nel frattempo, gli si erano fatti dappresso offrendogli parte del loro cibo. Uno di essi, più intraprendente, vedendolo indifferente alla loro accoglienza, gli chiese il motivo per il quale rifiutava la loro offerta. Il signore rispose di non avere nulla contro di loro, ma di essere molto triste e preoccupato per il suo unico figlio malato di malaria per curare il quale non sembrava esserci alcun rimedio. Dopo averlo attentamente ascoltato il contadino, raccomandandogli di attenderlo, si allontanò per tornare di lì a poco con un grande fascio di erba che, sorridendo, porse al signore: “questa è malva – gli disse- appena arrivate al vostro palazzo, fate preparare un infuso caldo per vostro figlio; vedrete che guarirà”. Passarono molti mesi durante i quali i contadini trascorrevano le loro giornate scandite da ritmi sempre uguali; finché un bel giorno, mentre erano seduti all’ombra degli alberi secolari, scorsero improvvisamente il ricco signore che cavalcava verso di loro chiamandoli a gran voce. “Accorrete, gente, voglio darvi una bella notizia. Mio figlio è guarito e per suo volere, laddove è stata raccolta l’erba, voglio costruire la mia nuova dimora ed intorno ad essa case per voi. Il nuovo paese che sorgerà lo chiameremo Malvagna”.
Sin qui la leggenda (che attribuisce il nome del paese alla malva abbondantemente presente nel territorio), semplice e dai toni pacati così come semplice e pacato è Malvagna.
Il Paese, infatti, è tranquillo; nei vicoli silenziosi risuonano i passi sulla pavimentazione in pietra lavica. Tutt’intorno un’atmosfera rarefatta, quasi d’altri tempi: vasi di piante sui ripidi scalini delle strade che salgono la collina, finestre chiuse nelle basse case, qua e là qualche nuova costruzione. Lo sguardo corre su pittoreschi scorci: ora un balcone con la vecchia ringhiera in ferro battuto dalla quale fanno capolino i gerani, ora un cortiletto su cui si affaccia la piccola porta, le tende dietro i vetri che nascondono consuete scene di vita familiare agli occhi indiscreti dei passanti. Di tanto in tanto si incontra qualche anziano, il volto segnato dal tempo e da una vita agreste. Risalendo verso la cima della collina nel dedalo delle strette vie, d’improvviso si allarga una piazza (piazza S. Giuseppe): il selciato di pietra lavica sul quale spuntano ciuffetti d’erba, la vivida luce giallognola degli antichi lampioni accesi, un cancello al di là del quale si intravede un orto ormai abbandonato, intorno le case rigorosamente mute che creano un momento di surreale magia.
Contro questo scenario si staglia la facciata del Convento dei Frati Minori, malinconica, struggente nel suo abbandono carico di storia.
Origini e Storia.
Malvagna ha radici antiche. La parte più interessante del suo patrimonio archeologico è costituita da ritrovamenti che riguardano la città di Tissa, sepolta dalla lava nel 396 a.C., ed un elmo tracio del IV sec. a.C. Ma reperti archeologici di varia natura e di diverse età indicano che il territorio di Malvagna fu abitato sin dalla tarda età del bronzo (900 a.C.), quindi rioccupato in età ellenistica, romana e bizantina epoca, quest’ultima, in cui pare abbia avuto il maggior sviluppo a testimonianza della quale è rimasta la “Cuba” di cui diremo più avanti. Malvagna nasce come latifondo: infatti nel 1565 Giacomo Garagozzo di Randazzo donò il latifondo di Malvagna al figlio Giacomo che, fattosi sacerdote e col consenso e l’intervento di un suo fratello, nel 1604 lo vendette a Silvia Abate, moglie del barone di Moio Pietro Lancia Solima, la quale lo lasciò al figlio secondogenito Giovanni che nel 1618 sposò Francesca Cibo, parente del Cardinale di Messina. La giovane sposa (cui il marito dedicò un mausoleo in bronzo dorato e pietre preziose prima custodito nella chiesa di S. Francesco a Messina ed ora ospitato nel Museo regionale della città) morì appena quindicenne lasciando al marito una cospicua dote utilizzando la quale, nel 1626, Giovanni Lanza trasforma il latifondo in feudo anche per il processo storico di mutamento in virtù del quale molti nobili, per acquisire privilegi e vassallaggio, nelle loro terre incolte aggregavano gente allettandola con la promessa di franchigie, sussidi e lavoro ottenendo con questo il duplice scopo di bonificare, coltivare e popolare le terre e acquisire la posizione, con tutto quello che conseguiva, di feudatari. Così nacque il feudo di Malvagna alle spalle e più in alto rispetto a Moio e alla Valle dell’Alcantara, dove a quel tempo imperava la malaria, cui pertanto il nuovo borgo sulla collina veniva a opporsi con la sua aria salubre e temperata che venne ad avere grande rilevanza nella stessa operazione di insediamento del nucleo abitativo avvenuta soprattutto nella parte più alta e isolata del territorio. Il nucleo iniziale di Malvagna è comunque poco esteso ed è la risultante di un’operazione di insediamento, sì collettivo ma non molto programmato. Le abitazioni infatti sono distribuite singolarmente o a gruppi, mai raccolti, ma collegate tra di loro in modo tale da formare un “muro”. La casa, rettangolare, sorge su un territorio anch’esso rettangolare, la parte libera del quale funge da orto se posto nella parte posteriore, da cortiletto se in quella anteriore, l’ingresso principale è sul lato più lungo della costruzione; vi sono due piani collegati o da una scala interna o da un arco esterno in pietra lavica sul quale si sviluppa la scala, con funzione di protezione dagli agenti atmosferici e di balcone per il primo piano fornito di finestrella con funzione di ripostiglio. La facciata è bianca o rossa, le aperture in legno, stipiti e architravi in pietra lavica rozzamente lavorata ma finemente squadrata.
Nel 1627 il feudo di Malvagna fu innalzato a principato da Filippo IV, con diritto al 28° posto nel braccio baronale del Parlamento.
Al principe Giovanni Lanza, sposatosi in seconde nozze con una Cutelli, rimasto senza figli succedette il fratello Francesco e alla sua morte il primogenito di questi, Pietro, che s’investì del Moio e del principato di Malvagna. Il principe Pietro non ebbe figli maschi, ma quattro figlie delle quali la primogenita, Domenica, ebbe l’investitura di Moio e Malvagna e sposò nel 1695 Corrado Lanza d’Alessandro, duca di Brolo. Nel 1706 succedette la figlia Felicia Lanza che, all’età di soli 8 anni era stata data in sposa al principe Ignazio Migliaccio, duca di Galizia e principe di Mazzarà il quale nel corso della sua vita non trascurò mai il feudo della moglie, pur essendo il centro dei suoi interessi a Palermo dove egli fece costruire, in omaggio alla sposa, Palazzo Malvagna. In successione ebbero il principato di Malvagna: Salvatore Migliaccio Lanza, figlio primogenito di Felicia Lanza e Ignazio Migliaccio che sposò Eleonora Mocada Branciforte; Ignazio Moncada che sposò Giuseppa galletti Vanni dei Marchesi di Santa Marina; Alessandro Migliaccio Galletti, che rimase senza figli, al quale succedettero prima il fratello Antonino e, alla morte di questi senza prole, la sorella Lucia Migliaccio Galletti, la quale lasciò la sua eredità (tra cui appunto il feudo di Malvagna)al nipote Vincenzo Paternò Vanni, marchese di Spedalotto e conte di Brades che lo tramandò al figlio Achille dal quale lo ricevette Vincenzo Paternò, attuale marchese di Spedalotto.
Accanto alle nobili famiglie che si susseguirono nel feudo di Malvagna per successione sin dalla fondazione (Lanza, Migliaccio, Paternò dei Marchesi di Spedalotto) si pongono la famiglia Pantano e la famiglia Ferrara, di origine genovese portata in Sicilia, per scampare alla peste, da Gaetano Ferrara, magistrato, nel 1653 ai cui discendenti appartiene tutt’oggi il palazzo Ferrara sito nella piazza principale del paese.
COSA C’E’ DA VEDERE
La “Cuba”, testimonianza di architettura bizantina, di datazione tra il sec. VIII e la prima metà del IX, è una cappella, posta un po’ fuori dal paese, la cui peculiarità è la cella tricora, cioè l’edificio formato dall’unione di tre absidi semicircolari semi cupolate, la più piccola delle quali si trova ad est, denominato appunto “cuba”, di sommo interesse esistendone in Italia solo pochissimi altri esemplari. Il vano centrale di forma quadrata è coperto da una cupola schiacciata, formata da undici filari di blocchi di lava, che poggia sul muro del prospetto e sulle arcate absidali in pietra calcarea rozzamente squadrata. La “Cuba” di Malvagna, dopo quella di Noto, assume particolare importanza per l’asimmetricità della porta (a nord) rispetto al corpo principale per cui l’altare e la porta non si trovano in linea, bensì spostati, fatto, questo, raro in queste costruzioni.
Il Convento di S. Giuseppe dei Minori Riformati risale ai primi del settecento (1720) e fu eretto per volere di Ignazio Migliaccio, duca di Galizia e principe di Mazzarà, marito di Felicia Lanza (discendente del fondatore del feudo di Malvagna) in onore della quale venne scolpito uno stemma dei Lanza. Il prospetto, di stile baroccheggiante, rivolto a sud verso l’Etna, è solenne con la Chiesa, l’accesso al chiostro, la facciata del convento punteggiata da minuscoli balconcini e il muro con il cancello in ferro che si affaccia sull’orto, adesso incolto. Una cuspide, annessa alla chiesa, simboleggia il campanile. Intorno al 1750 un frate, fra Giuseppe di Novara S., affrescò con abile maestria le mura del chiostro e abbellì l’interno della chiesa con semplici pitture popolari. L’altare ligneo, ormai quasi inesistente, è un’opera barocca formata da un corpo principale a tre piani (di tipologia a torre con copertura a cupola) sormontato da una croce: il piano inferiore, più grande, ha un’apertura centrale, la zona sottostante è incuneata in due ali di gradini a quattro livelli che compongono l’altare propriamente detto, al centro il tabernacolo chiuso da uno sportello sul quale è rappresentata l’Ultima Cena. Le tre aperture sono tra di loro allineate e il primo e l’ultimo livello sono adornati da colonnine con base quadrata tutte scolpite a intaglio. Il Convento fu luogo di preghiera e di lavoro e poteva ospitare sino a 40 monaci. Dal 1860 in seguito all’espropriazione e all’incameramento dei beni ecclesiastici rimase disabilitato.
La Chiesa di S. Anna, che ospita la statua della Santa che viene portata in processione il 26 di luglio, fu ricostruita nel 1938 sulle rovine dell’omonima antica chiesa una volta annessa al castello principesco dei Lanza del quale non è rimasto nulla. Demolito nel 1934, originariamente esso era un’antica costruzione, eretta con materiale diversi, la pietra lavica e la pietra arenaria che davano all’opera cromature chiaroscurali per effetto dei loro diversi colori, che fungeva da casa fortezza con le merlature e le finestre inferriate. Aveva tre corpi rettangolari dei quali i due laterali erano avanzati rispetto a quello centrale; gli stipiti in pietra lavica perfettamente squadrata.
Il Palazzo Ferrara, di stile neo-classicheggiante, è uno dei più antichi edifici di Malvagna; sorge sulla piazza principale del paese (piazza Roma). E’ una grande costruzione a pianta rettangolare con il lato più corto prospiciente la piazza; sui due lati più lunghi presenta da una parte un cortile che dà accesso all’ingresso principale e ai magazzini, dall’altra un ponte ad arco che consentiva di comunicare con il palazzo sovrastante. Le stanze, disposte in due ali parallele, hanno soffitti decorati a mano e arredamento ottocentesco; il piano terra ospita una bellissima cappella.
La Chiesetta di S. Marco è situata a nord su una collinetta sovrastante il paese, alle falde della Serra Castagna. Di stile indefinito, databile forse prima del ‘700, è una piccola costruzione con pianta a forma quadrata a copertura cupolata. Il prospetto è composto da un ingresso simmetrico rispetto alla porta principale; gli arredi del portone sono in pietra arenaria; sull’ingresso un rozzo lucernario a forma circolare; sul lato sinistro della facciata un piccolo campanile. Si suppone dovesse essere un eremo; in passato era meta di pellegrinaggio durante le novene dell’Assunta che avevano luogo nella prima metà del mese di agosto, tradizione questa ormai desueta.
Tradizioni e Feste
Adagiato sulle pendici dei monti che lo riparano dai venti che spirano da nord-sud, Malvagna è un piccolo centro collinare il cui territorio è diviso in contrade: Butisco, Chiusa Abbate, Chiusi Ferrara, Cuba, Manganelli, Sghiccio, S. Marco delle quali contrada Cuba e contrada S. marco hanno dato vita al paese (nell’attuale assetto i territori che compongono il comune di Malvagna sono scindibili in comune di Malvagna e contrada Cuba n.d.r.).
La vita del paese trascorre nella quotidianità scandita da ritmi di vita tranquilli fatti di abitudini gelosamente custodite, di tradizioni tramandate di generazione in generazione. Come preparare il pane, impastato nella “maidda” (una specie di vasca di legno) con farina di grano duro, sale e lievito naturale, infornato in antichi e ormai rari forni di pomice lavica; o fare la vendemmia con la ritualità dei tempi passati, pigiando ancora l’uva con i piedi; o allevare i maiali con ghiande e crusca per “scannarli” alla vigilia di Natale e ricavare da essi salsiccia, lardo, capicollo pancetta, “buccuraru” parte superiore del collo essiccata al sole), “fritturi” (pezzi di carne, zampe, orecchie, cuore e polmoni) cotte a fuoco lento nella “quaddara” (pentola di rame); o preparare “i favi a’ maccu”, la “nuvoletta” (dolce tipico intinto nel vino cotto), il “mastazzoru” al miele, i ravioli ripieni di ricotta e cannella.
Sono momenti di storia vissuta attraverso le piccole cose, i gesti e le parole di gente semplice e lavoratrice. “C’è tutta una storia del popolo malvagnese – ha detto Josè Russotti, autore di una raccolta inedita di ‘testimonianze’ di vecchi contadini, ‘jurnatari’, abili ricamatrici, mastri scalpellini, alcune delle quali riportiamo –che non è stata ricostruita ed è la storia della povera gente con il loro patrimonio culturale, le loro tradizioni, piccoli ‘tesori’ celati, che alla loro morte sarebbero scomparsi inesorabilmente”
Così ci si immerge in sapori del passato attraverso le parole di Carmelo che rievoca la stagione del grano e della mietitura “quannu era picciriddu satava pi strati comu un rriddu, iucava a l’un ntrì-ntrì (a trenta e trentuno n.d.r.) appoi un jonnu ma patri mi chiamò e mi dissi: ‘figghiu iau bisognu i tia’ e di tannu addivintai zappaterra e mi susia alli primi arburi, quannu i stiddi pariunu tanti lucipicurara. Ni passai junnateddi all’acqua e o ventu … arreri e vacchi pi viora e bausi, cu nsulu pugnu di fica sicchi e castagni… I lauri mituti si mittiunu a mposta. Ogni sei legna faciumu na mposta e calcolaumu all’antica.
Na mposta currispunnia a un tummunu di frumentu, si i siminati rinisciunu boni, appoi dall’aia iazzaumu i ntimogni e uno cchiù beddi i putia fari cchiù megghiu era pi l’occhiu da genti…”
Oppure attraverso la dolce malinconia di donna Lucia che, nettando il frumento sull’uscio della sua casa disadorna con la scala di legno e lo stipite scavato nel muro, si abbandona alla rievocazione di storie suggestive, di suo marito pastore morto tempo fa e della sua solitudine divisa con l’Etna “a muntagna” e intona una vecchia melodiosa cantilena contadina “di cu si figghiu? Du cunigghieddu. / Unni ti cucchi? Nto pagghiareddu. / Cu cchi ti mucci? Cucappettuddu. / Friddu nni fa? E cu lu sa…!”
Economia
In un clima salubre si sviluppano l’agricoltura e la coltura del pesco e della vite, oltre che di cereali ed ortaggi. Abbondano le piante selvatiche e domestiche tra cui il posto primario viene occupato dalla malva, molto usata per infusi, decotti o impiastri.
MINIGUIDA
Altezza sul mare: 710 m. s.l.m.
Superficie: 6,90 Kmq.
Abitanti: circa 1.000
Monumenti: la chiesa bizantina “Cuba”, il Convento dei Frati Minori
Feste: S. Anna (ultima domenica di luglio)
Come Arrivare
Dalla costa ionica: (complessivamente circa 90 Km. Da Messina) lasciando l’autostrada ME-CT al casello di Taormina Sud si imbocca la strada che da Giardini sale lungo la Valle dell’Alcantara sino a Francavilla S. per poi lasciarla e intraprendere la strada che dal bivio S. Paolo si divide in due tronconi: uno per Novara S., l’altro per Moio e Malvagna.
Dal versante tirrenico: è raccordabile alla strada Capo d’Orlando – Randazzo- Fiumefreddo, oppure Terme Vigliatore/Novara.
Dove mangiare
Nei dintorni: a Moio Alcantara, a Francavilla di Sicilia, oppure andando verso Montalbano E. a Polverello e Favoscuro.
Filippo Briguglio
Supplemento al n.5 della rivista “Parentesi”
Novembre – dicembre 1989
Filippo Briguglio