A Milazzo uccise con una sciabolala un capitano borbonico dei cacciatori a cavallo
di Bruno Villari
A Milazzo il 20 luglio 1860, un coraggioso capitano della cavalleria napoletana avrebbe potuto uccidere
Garibaldi e cambiare non soltanto l’esito di quella battaglia ma anche la storia d’Italia. Ma gli mancò la fortuna una e perse la vita.
Il fortunato protagonista di quell’episodio fu invece Giuseppe Missori, comandante dello sparuto gruppo di guide dei Mille, che con una serie di colpi d’arma da fuoco riuscì a uccidere, in sequenza drammatica, un cavallo e due cavalieri napoletani piombati addosso a Garibaldi appiedato e armato della sola sciabola.
Insieme ai due uomini uccisi da Missori cadde anche il prode capitano Giuliani colpirò da una sciabolata vibratagli da Garibaldi il quale però afferma nelle Memorie che fu Missori a ucciderlo con una revolverata divergenza grave solo in apparenza poiché, come vedremo, Missori sparò addosso al capitano con la carabina ma colpi il cavallo arrestandone la corsa. E tanto fu sufficiente a Garibaldi per calare sul collo del cavaliere sbilanciato e attonito un fendente mortale.
Sull’episodio così scrisse Garibaldi: «Urna carica di cavalleria che si trovata di sostegno al pezzo catturato, fu eseguita dai borbonici d’un modo brillante e ricacciò i nostri un pezzo indietro, di modo che io netto rimasi oltrepassato dai caricanti cavalieri e obbligato a gettarmi in un fosso laterale alla strada, ove difendermi con la sciabola alla mano. Tale circostanza durò poco, il colonnello Missori colla sua solita bravura mi apparve alla testa di vari distaccamenti nostri,che antecedentemente avean conquistato il cannone e mi disimpegnò e sbarazzò con suo revolver del mio antagonista di cavalleria nemica. I distaccamenti suddetti erano: la compagnia Bronzetti, e indiani di nuova formazione, comandati dal prode Dunne. Non ricordo gli altri».
Missori raccontò per la prima volta l’episodio, pochi giorni dopo la battaglia, al giornalista Jules Davaux dell’illustration Francaise e il resoconto comparve il 18 agosto successivo.
Nel I882 Missori riconfermò il racconto fatto al Davaux in una dichiarazione rilasciata a Pirro Aporti autore di una biografia di Garibaldi. In questa occasione Missori precisò che insieme a lui e Garibaldi c’era anche il giovanissimo marchese palermitano Alfredo Bertini al quale, fin dal 1862 Missori aveva n asciato una dichiarazione di partecipazione all’episodio che poi, nel 1888 riconfermò in due lettere inviate al figlio del Bertini, Leopoldo. Nel 1910, in occasione del 50 ‘ anniversario della spedizione
dei Mille, Missori fece lo stesso racconto allo storico inglese George Trevelyan.
Prima di passare al racconto del Missori e forse opportuno delineare il quadro della battaglia del 20 luglio verso le prime ore del pomeriggio, quando tutto sembrava compromesso per i garibaldini.
Infatti, l’impeto dell’ala sinistra del Malenchini, che aveva attaccato per prima alle sei del mattino, si era spezzalo sotto il fuoco micidiale dell’artiglieria napoletana e il vigore delle cariche di uno squadrone di cacciatoti a cavallo comandalo dal capitano Giuliani.
Anche sull’ala destra, guidata dal Medici, la fucileria nemica aveva aperto larghi vuoti sparando da dietro una fitta cortina di fichidindia.
Garibaldi decise allora di affidate la sinistra a Cosenz c di chiamare in linea i ragazzi palermitani del battaglione Dunne. Egli stesso, con un gruppo della compagina di Pilade Bronzetti, prese posizione dietro i canneti in prossimità della tonnara, sull’estrema sinistra napoletana, per infilare due cannoni nemici che dalla strada litoranea presso porta Messina, mitragliavano le file garibaldine.
Uccisi i serventi uno dei pezzi fu catturato e trainato dentro le linee mentre l’altro fu riportato in città dalla porta Messina.
Nel corso di quest’azione una palla ferì la cavalla Marsala, che si imbizzarrì costringendo Garibaldi a saltare a terra lasciando le pistole nella sella. La palla aveva peraltro strappalo al Generale il tacco e lo sperone destro. Armato della sola sciabola e zoppicando sul piede destro Garibaldi si portò sulla strada insieme a Missori e al marchese Bertini, anch’essi appiedati, per ricondurre all’attacco la compagnia Bronzetti e i picciotti di Dunne.
Bosco, intanto, che dirigeva le operazioni stando in sella davanti alla porta Messina attorniato dallo squadrone che per tutta la mattinata aveva caricato brillantemente, ordina una ulteriore carica per recuperare il pezzo catturato dai garibaldini.
Insieme al capitano Giuliani partono a spron battuto il tenente Luciano Faraone e una quindicina di cavalieri che irrompono sulla strada litoranea con le sciabole sguainate scomparendo a destra per piombare sul cannone perduto.
Ma lasciamo il racconto a Giuseppe Missori: «Eravamo io e un giovinetto palermitano, imberbe, Alfredo Bertini marchese di Spataro, soli col Generale sul ciglio di una viuzza, addossati a una siepe di fichi d’India, in prossimità della mischia, ed i nostri avevano tolto al nemico un cannone. Di fronte a noi la strada era spalleggiata da un muro. Ad un tratto si ode a destra uno scalpitio di cavalli e in men che non si dica, ci passano l’un dopo l’altro dinanzi come freccie circa quindici cacciatori a cavallo, le sciabole sguainate, con un maggiore in testa. Non si scorro o non badano a noi perché lanciati a carienza e diritti a conquistare il cannone perduto. Appena scompaiono al vicino risvolto della via sono accolti da una salva di fucilate, tornano mi loro passi meno veloci di prima, sempre una dopo l’altro, col maggiore in testa. Il Generale, che intuisce il pericolo di trovarsi tra un istante circondato da quei cavalieri, non fa motto ma sguainata la sciabola balza come un leone nel mezzo della strada ed a voce tonante intima ai cacciatore la resa. Io imbraccio una carabina che mi trovai sotto mano, e senza altro pensare sparo colla mira sul maggiore ferendone il cavallo in un fianco. Si accascia il cavallo quasi addosso al Generale, ed il maggiore cala un fendente sul suo capo. Garibaldi che è in guardia lo para e taglia la gola a quel prode. Sopraggiunge quasi subito il secondo cacciatore, ed io intanto avevo impugnato la mia rivoltella, che ho la fortuna di colpirlo nel torace. Il suo cavallo, col cavaliere caduto a corpo morto sull’arcione, si ferma d’un tratto vicino a noi. Lo seguiva un altro cavallo smontato che si ferma allineandosi cogli altri due e viene così a formarti dinanzi a noi una strana barriera. L’uomo smontato che inseguiva il suo cavallo è giunto a corsa, e cerca avanzarsi contro noi con la sciabola in pugno, aprendosi il passo fra i cavalli fermati. Quasi a bruciapelo gli scarico la rivoltella netta fronte, e il suo sangue spruzza sul volto a Garibaldi. Intanto i sopravvenenti cacciatori s’impigliano, si confondono, u arrestano, e ben presto sono fatti prigionieri dai nostri che a furia li rincorrevano».
Il generale Rodolfo Corselli in «Garibaldi condottiero» pubblicato dallo Stato maggiore dell’esercito nel 1932, scrive che il Bertini a sua volta ferì mortalmente il tenente Luciano Faraone. Ma Palermo Giangiacomi sul «Corriere adriatico» del 28 febbraio 1933 afferma invece che il faraone fu ucciso con un colpo di baionetta vibrata dal sergente Tuminiello, dei picciotti di Dunne che poco prima avevano arrestato la galoppata dei regi sparando da dietro le siepi e inseguiti poi nella ritirata.
Secondo il rapporto di Bosco il tenente Faraone rientrò in città con sene ferite d’arma da fuoco, insieme ad una mezza dozzina di superstiti.
L’episodio, com’era naturale, divenne leggendario e molti scrittoti lo hanno descritto con accenti omerici.
Garibaldi, come abbiamo visto, ne scrisse poche battute attribuendo la propria salvezza esclusivamente al Missori. Alcuni hanno scritto che vi partecipò anche Stantella, ma la testimonianza di Missori lo esclude, ne Stantella l’ha mai smentita.
Anche gli illustratori hanno ricostruito l’episodio con differenti varianti.
(Noi qui riportiamo quella comparsa sull’lllustration del 18 agosto 1860 eseguita dal Davaux e sicuramente vista da Missori prima che il giornalista la inviasse al giornale).
Bruno Villari
“Parentesi” anno I n. 1 marzo aprile 1989