“Il Pane il vino e l’olio” è un interessantissimo saggio di Fortunato Pergolizzi, incentrato sui tre elementi fondamentali per il nutrimento sano della vita dell’uomo.
Il pane che rappresenta il simbolo della fatica ed è per questo che viene da sempre rispettato. Per questo non va mai messo al rovescio sul tavolo: Il vino, rappresenta il simbolo dello stare insieme e del legame sociale, ingrediente fondamentale nelle feste, è simbolo dell’abbondanza, ha un ruolo centrale, sul piano del gusto, sul piano della tradizione e anche sul piano della religioso.
L’olio: …Olea prima omnium arborum est, ciò sta a significare che, fra tutti gli alberi il più importante è l’olivo. Questo sosteneva Columella nel De re rustica un secolo dopo.
Pergolizzi è stato un uomo dalla grande personalità. Per lunghi anni docente di disegno e storia dell’arte al Liceo scientifico “Archimede di Messina”e nel contempo ricercatore attento e meticoloso, ha contribuito con i suoi scritti ad arricchire il già vasto panorama significativo della storia dell’arte della provincia di Messina. Ha scoperto per primo dove poteva trovarsi la tomba di Antonello da Messina, dando vita a dibattiti e discussioni intorno alla figura del grande pittore rinascimentale. Ha collaborato con il quotidiano messinese “Gazzetta del Sud”, e naturalmente ci ha onorato di collaborare con la rivista “Parentesi” regalandoci tanti preziosi articoli e tre saggi che hanno contribuito ad arricchire la collana di saggistica e narrativa”Libriparentesi”edita dall’omonima Associazione culturale primo: “Antonello oltre il visibile”, saggio su antonello da Messina, che gli ha fatto vincere il premio nazionale“Antonello” presso la Basilica di Santa Maria degli Angeli in Roma, e successivamente, “I rebelli e disgraziati del re”- Diario di una rivolta,purtoppo pubblicato postumo ed infine, quest’ultimo, “Il pane il vino e l’olio” che ci aveva consegnato affinché venisse pubblicato non appena fosse stato possibile da”Parentesi”e che stiamo pubblicando solo oggi, online, a distanza di tanto tempo, per motivi strettamente economici, ma che oggi siamo lieti di offrire gratuitamente al lettore che fosse interessato in onore del suo autore.
di FIlippo Briguglio
IL PANE (Panis- aptas ortos)
Il “Pane” accompagnò l’evolversi delle civiltà che si svilupparono nell’area del Mediterraneo.
Dagli Egizi ai Greci, Ebrei e Romani, l’alimento ricavato dalla farina di grano, misurò lo stato di salute dei regimi che si alternarono al potere e fu oggetto, il consumo, alle varie leggi frumentarie che ne stabilivano il prezzo politico (come avviene oggi) poiché la carenza di tale nutrimento, anche se mossa dalle carestie o di altre calamità, fu sempre causa di violente reazioni del popolo, provocando la caduta dei governi e delle dinastie, perché il vuoto allo stomaco ottunde la ragione e fa prevalere il furore collettivo generato dall’istinto di conservazione.
L’origine poetica della storia dell’umanità, il Mito, rimanda a Cerere, la Demetra dei Greci, la diffusione della coltivazione del grano, la macinazione e la panificazione, mentre da Saturno venne, all’uomo, l’insegnamento per rendere fertile la terra, dal cui frutto più importante, il grano, si ricavava, macinandolo tra due pietre (una ruotante sull’altra, un metodo in uso nelle nostre campagne sino agli anni ’40)la farina e dal suo impasto, il pane, detto in greco “artos” (aptos) per indicare pure le cose preparate, cibo, focaccia, che, prodotto nelle forme diverse, veniva offerto, nelle feste calendariali, a Cerere e a Minerva.
Sacralità ereditata dai romani, quando, col pane, sostituirono il tradizionale “puls”, impasto di farina di farro o di fave, e ne fecero oggetto di natura politica, in quanto costituirono i forni pubblici (pristina) controllati dagli Edili, mentre nell’età imperiale i fornai (pistores) si riunivano in cooperative, usanza interrotta nel medioevo quando la preparazione del pane avveniva nell’ambito familiare (come si usa fare ancora nei nostri casali) per riemergere, il forno retto dalle cooperative, nell’età rinascimentale.
Intanto i romani personificavano la cottura del pane (panis) nella dea Fornacalia che presiedeva all’abbrustolimento e alla macinazione del grano, un culto che, il secondo re di Roma, il pacifico Numa Pompilio, sanciva con la festa dedicata alla dea “Fornacalia” (“calia,” in vernacolo siculo per dire dei semi di zucca, arachidi, ceci e fave abbrustoliti) che si celebrava nel mese di Febbraio con l’abbrustolimento e la macinazione del grano, solennizzazione ripresa dal tribuno Apuleio Saturnino nel 100 a.C., quando promuoveva la legge frumentaria per stabilire la distribuzione del grano a basso prezzo.
Ma con l’avvento del cristianesimo, il pane azzimo, sacro agli Ebrei nella celebrazione della loro Pasqua, non solo manteneva la sacralità, bensì acquistava significati sublimali con la preghiera che Gesù dettava agli apostoli quel Pater Noster che invocava da Dio la grazia del pane quotidiano (non a caso Gesù nasceva a Bethlem (Beth-le-hem) la casa del pane) e, nell’ultima cena, quando pronunziava il fatidico “questo è il mio corpo prendete e mangiate” dopo averlo benedetto e spezzato, nel pane traslava la dottrina teologica della “Transunstanziazione” secondo la quale, durante la celebrazione della Santa Messa, il pane si trasformava nel corpo di Cristo e il vino nel suo sangue.
Una memoria evangelica al centro della Fede, iconograficamente rappresentata sin dalle catacombe e via via, “l’ultima cena”, seguiva l’evoluzione delle espressioni artistiche, sino alla esaltazione di quel momento, raccontato da Leonardo Da Vinci nell’affresco del refettorio di Santa Maria delle Grazie, in Milano, oggetto di tantissime cure per mantenerne l’integrità minacciata dal labile pigmento, che tende a polverizzarsi, usato dal grande sprovveduto artista. Il pane, dunque, espressione di Dio fatto uomo, dell'”Uno” equivalente al Tutto, Creatore di quell’Universo che i Greci descrivevano nella figura del dio Pan immaginato con la faccia caprina rossa (l’aria) e le corna per indicare il Sole e la luna; il corpo lanuto, la vegetazione, la pelle di pantera, che lo copriva, il cielo stellato e le estremità delle zampe biforcute, la stabilità della terra, mentre il bastone, dalla cima ricurva, cennava il ciclo dell’anno.
Inoltre fu considerato, oltre che generatore di panico (la paura del dio degli Ebrei, Geova Pantocratore) l’inventore della zampogna con sette canne (l’armonia del cielo) e della “siringa”, lo
strumento musicale delle dolci note, venuto dalla ninfa Siringa, che per sottrarsi alle voglie di Pan, per intervento della Terra, si trasformava in canna, così come da “Pan” (Tutto) e “akos” (rimedio) si componeva il nome di “Panakeia” (panacea) figlia di Esculapio, la guaritrice di tutti i malanni.
Un gesto, quello della benedizione, distribuzione del pane, ripetuto da Gesù dopo la Resurrezione, apparendo a due apostoli, dei quali i Vangeli non citano i nomi, nel villaggio di Emmaus, nella Giudea, allora…
il pane perdeva l’essenza di “Proposizione” (era posto sulla tavola d’oro dinnanzi al Tabernacolo della Sacra Bibbia) riservato ai rabbini, per essere dispensato a tutti i fedeli, nel segno dell’Eucarestia.
Singolare il momento e altamente mistico l’avvenimento di Emmaus, che il Caravaggio sentiva congeniale quando dipingeva l’episodio in un paio di quadri, ponendo in evidenza il luogo, il dimesso interno di una taverna e i personaggi li sceglieva tra l’umile gente dei borghi; trsferiva cioè, l’attimo della benedizione del pane, secondo un modo iconografico lontano dai dettami accademici.
Nella “Cena di Emmaus”-della National Gallery di Londra- il Caravaggio, infatti, presenta il Cristo dal volto giovanile e imberbe, diverso dai canoni somatici, ma dalla espressione intimamente intensa, col braccio, proteso in avanti, nel gesto benedicente il pane sul tavolo bandito con caraffe di vino, ciotole, un volatile cucinato e un canestro di frutta, in primo piano, con i simboli collegati alla vita del Salvatore: il pane, il suo corpo, l’uva, il sangue del martirio; la mela l’amore scambievole e i fichi congiunti alla memoria di Adamo e all’Antico Testamento.
Ma la luce radente, riverbarata, dalla candita tovaglia, sul volto di Cristo, pone accenti plastici, esaltati dal fondo scuro, che enucleano il Protagonista al centro, e i due apostoli e l’oste alla destra di Gesù nell’atto di osservarlo con ottusa curiosità, diversa da quella manifestata dall’apostolo anteposto al tavolo, che accenna ad alzarsi d’impeto, facendo leva sui braccioli, sorpreso e turbato nel momento in cui riconosceva Gesù Resuscitato, dalle piaghe ancora visibili nelle mani. L’altro apostolo, invece, allarga le braccia segnando una sorta di quinta quale parametro della profondità dello spazio illusorio che accoglie la narrazione e mostra, nel viso d’anziano, i segni scolpiti dalla quotidiana fatica, ma dal profondo sguardo colmo di devozione e, la conchiglia, che adorna la giubba, lo fa identificare in San Giacomo: probabilmente, il Caravaggio, volle ricordare l’apostolo che invocò da Gesù la moltiplicazione dei pani per sfamare la folla che seguiva le orme del Salvatore.
Chè, il pane, oggetto votivo presso i pagani lo sarà anche per i cristiani quando lo distribuivano per le feste dedicate a San Nicola, sotto forma di scaletta, il mezzo per raggiungere il Paradiso con l’aiuto del demiurgo e nello stampo di “cudduredda” (ciambella) per onorare San Biagio, come San Nicola, guaritore del mal di gola, oltre che per Santa Rita, Sant’Antonio protettore degli orfani; il pane, dunque, nel cuore del Mito, della religione pagana e cristiana e della storia dei popoli civili, poiché, per i Greci, i paesi che ignoravano la panificazione erano barbari.
Il “pane”, “frutto del sudore degli uomini,” che assume il sapore amaro quando non si è in grado di guadagnarlo, uno stato d’animo deprimente che induceva Dante a scrivere che “.. tu proverai come sa di sale/lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e l’salir l’altrui scale..” per dire, anche, del primo impatto con la realtà dei giovani, ai quali veniva l’aspro invito di “a buscati u pani” e per mettersi bene in mente che “a ccu ti duna u pani chiamulu patri” altrimenti, se dimostravano scarsa voglia di lavorare si rivolgeva l’esplicito “mancia pani a tradimentu”, ma pure , allorchè sceglievano, a giudizio dei genitori, i fidanzati sbagliati, l’apodittico “non è pani ppi to denti” seguito dal terribile monito di ” a ccu ti leva u pani levici a vita”, oltre che “pani e sacramentu n’havi ogni cunventu”.
Del pane, dunque, una volta fatto di poche forme, come la pagnotta, la puccidata (ciambella) e a pesce, sulla cui pasta i fornai incidevano il segno della croce, per facilitarne la cottura, era talmente sentita la venerabilità, che inciampando in un tozzo di esso, lo si raccoglieva e, dopo averlo baciato, si riponeva in qualsiasi anfratto in guisa di Tabernacolo. Nell’era odierna del benessere, invece, il pane si chiama ciabatta, marsiglia, pezzettoni, michetta, rosetta, stella e integrale (di crusca) o di segala (il pane dei barbari) e in cento altri modi ed è invalso il costume di andare alla ricerca dei forni di campagna dove ancora, la farina si impasta nella madia e il pane si cuoce con la legna, nella speranza di ritrovare gli odori e i sapori perduti, allorchè il pane caldo, si condiva con l’olio di trappeto col sale e pepe. E, sopravvive, nelle nostre parti, l’usanza di cibarsi con pane di granturco per devozione ai Santi Giuseppe, Lucia e Biagio, nella ricorrenza della loro festa, quel pane giallo che gli italiani dovettero masticare durante la guerra contro l’Abissinia, un conflitto impari per cacciare il povero vituperato Negus e che provocava le “Sanzioni”, nel 1935-36, nell’intento di isolare l’invadente Mussolini e affamare il popolo delle camicie nere, vietando le importazioni del grano, delle materie prime e le esportazioni dall’Italia.
Ma il disegno dei 52 paesi della “Società delle Nazioni” non sortì gli effetti sperati, poiché, con la “Battaglia del grano” il Duce s prendeva la rivincita coprendo il fabbisogno inteno e il pane ritornava nelle nostre mense, per un lasso di tempo breve,poihè con la deflagrazione della guerra, nel 1940, il pane scomparve dagli scaffali dei fornai e divenne oggetto di “ntrallazzo” (vendita illegale)malgrado i bollini delle tessere alimentari (le polizze dei vicere spagnoli) che assegnavano un pane a testa di 200 grammi, poi 150, quindi 50 grammi.
E, infine, nemmeno una mollica, mentre i propagandisti del “Ministero della educazione nazionale (maestri e professori) mettevano in ridicolo gli inglesi, rammolliti, che mangiavano (beati loro) cinque volte al giorno, contro gli spartani Balilla che inghiottivano saliva, ma avevano assicurato il libro e il moschetto.
Venne, però, la sconfitta, alla faccia del motto di “Vincere e Vinceremo” e scomparvero le folle oceaniche che urlavano, nelle piazze (nella maniera più fanatica nelle regioni del nord, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Toscana e Lazio, privilegiate dal regime fascista) l’incitamento al Duce di fare la guerra ai quattro venti per “vincere o morir” : avessero ascoltato il detto siciliano quando si racomandava di “fari a tutti guerra fuorchè all’America e all’Inghilterra”!
Cosicchè con l’arrivo dei “Liberatori- Invasori”, riapparve il pane, ma di manioca, bianchissimo ed elastico come le gomme da masticare che sostituiva il pane di fave, nero, disgustoso e puteolente, integrato con le lignee dolci profumate carrube e le mandorle, che permisero la sopravvivenza del popolo, suo malgrado, guerriero, e dei voltagabbana, gerarchi, federali, sciarpe Littorio e burocrati, grandi e piccoli che riuscivano, con acrobatici salti ideologici, a conservare i loro posti di comando dichiarando, che in fondo, vestivano la camicia nera, (anche quando andavano a letto), solo per fare la “fronda”. Un esercizio ancora di moda tra i politici di ogni cabotaggio, decisi di “galleggiare” ad ogni costo, comportamenti che davano ragione a quanti sostenevano che, in realtà, “se la musica cambia, i suonatori sono sempre gli stessi” con immutabili vizi e pochissime virtù, gente furba che non ” si mangia u pani du cozzu”, cioè dalla parte estrema del pane, piuttosto dura da masticare, (detta”nonno”, appunto, perché i vecchi li davano ai nipotini) preferendo la porzione morbida, lasciando “u cozzu” da mangiare ai poveri e agli sprovveduti.
Ma con la fine della guerra, si affievolirono pure riti e costumi collegati al pane, compreso quello della “cudduredda”, i cestini di pane dolce (i pani ij cena) con la lucida crosta cosparsa di semini di odoroso sesamo (ciciulena), panieri imbottiti di uova infornate, che si preparavano per le feste pasquali, per essere lanciati in aria, allo sciogliersi delle campane, che annunciavano, a mezzogiorno, con festoso scampanio, la Resurrezione di Cristo. Con la speranza che si rompessero al contatto col suolo, come segno beneaugurante e il gesto veniva accompagnato, dai vocianti felici ragazzi, con la filastrocca non più tramandata:”..la gloria sunau e a cuddura si spizzau, si spizzau a mossa a mossa a cuddura senza ossa..”.
IL VINO
E il vino e la vite, l’uomo li deve alla generosità del dio Diòniso,il Bacco dei Greci, nume venerato nelle selve e nelle città, che portano il nome della sua nutrice Nisa, e tra queste, quella fatta gemmare dai Siculi nel XII secolo a.C., a monte dell’odierna Fiumedenisi sorta al tempo dei normanni, nella vallata che accoglie il fiume omonimo, che scorre tra le pieghe dei monti Peloritani, a sud di Messina e che sfocia nel mare Jonio, nei pressi della cittadina termale di Alì.
Ma il primo, seppure inconsapevole, maestro dei vignaioli, fu il priapreo asino, il quale , aduso a cibarsi dei tralci, dopo la vendemmia, suggeriva la pratica della potatura, in quanto, la pianta, nella primavera successiva, si mostravano più rigogliose e cariche di succosi grappoli, una prassi, la potagione, seguita da un rituale crudele che faceva vittima, della ingratitudine umana, il povero asino, ucciso e decapitato col seguente seppellimento della testa tra i solchi del vigneto, per mantenerne la salute.
Un cerimoniale scaramantico che non risparmiava il gallo, caro ad Apollo, il dio del solo, del quale annunciava, col suo squillante canto, il sorgere, ritenuto depositario di ancestrali poteri contro gli effetti nefasti del libeccio sulle vigne, subiva un martirio ancora più efferato, poiché, tirato per le zampe da una parte e dall’altra, veniva squartato e, brandendo i miseri resti sanguinanti, i contadini percorrevano in lungo e in largo le piantagioni per infine, sotterrarli, sicuri di salvare così il raccolto.
Lo stesso Diòniso, secondo la mitologia greca, subiva una morte propedeutica al suo rinascere, quando, preda dei Titani, veniva sbranato e divorato, tranne il cuore, dal quale, il dio del vino, sbocciava a nuova vita affermando la sua natura immortale, uccisione emblematica ripetuta dalle Monadi che mangiavano Bacco-cerbiatto, dai cui resti germogliavano nuove piante alimentari per beneficare l’umanità, confermando il carisma di Bacco quale custode della matuazione dei frutti della terra, significando pure il trionfo del Bene sul Male.
Dioniso, dunque, nume della idealità ellenistica, subiva la sorte di tutti gli innovatori, eroe della civiltà contadina, come le piante moriva per risorgere con più splendore, paredro di Apollo, e sull’onda del suo culto, avveniva la rinascita spirituale dei giovani iniziati ai riti orfici-dionisiaci, gli “epopti” ammessi, alla conoscenza delle cose più segrete dopo cinque anni di prova, nell’ambito dei misteri eleusini, per ottenere il passaggio alla società degli adulti.
Obiettivi perseguiti dalla “Tiasi”, setta d’iniziazione ebraica, alle quali si ispirarono quelle precristiane dei Nazarei, che accolsero Giovanni Battista e Gesù, società esoteriche che affondavano le radici della loro nascita intorno al 1006 a.C., anno in cui Salomone gettava la prima pietra per edificare il tempio di Gerusalemme e nasceva la massoneria.
Si profila, quindi, un rapporto ideale tra Dioniso e Cristo, tra il Mito e la Storia, poiché in entrambi i culti a loro riferiti “si tendeva alla conoscenza di un dio supremo e dell’eternità dell’anima, nella credenza della caduta originale, nella fede promessa di un redentore e, infine, di una riabilitazione personale per mezzo della iniziazione”(Vulliaud).
E di Bacco, definito da Plutarco “il più giovane degli dei ellenici e dio degli Ebrei”, figlio di Semele e di Giove, le iconografie tradizionali lo rappresentano di forma apollinea, del tipo androgino, secondo Euripide, con i capelli crespi e vestito di “nebride” la pelle di cerbiatt, simbolo del cielo stellato e col mantello porpureo, per ricordare il suo martiro e resurrezione, unitamente al “Tirso”, il bastone rivestito di edere e di pampini per indicarne l’immortalità, signore del mondo umido e della natura vegetale; egli è l’Anacto, provvidenza del mondo e demiurgo, autore di molti prodigi, che faceva sgorgare dalle rocce fontane di acque e vino.
Ma fuori dalla metafora, Strabone, geografo latino, decantava il vino dell’Etna conservato nei “pithoi” e ricordava di un ricco agrigentino, Gallia, nelle cui cantine si conservavano ben trecento “pithoi” ognuno capace di contenere cento anfore di vino che, dai porti siciliani, veniva esportato nella Campania e nel Lazio e da Pompei si hanno notizie del vino di Naxos, conosciuto col nome di “Tauromenitanum”.
Anche Caio secondo Plinio, sepolto dalle ceneri del Vesuvio, nel 79 a.C., nella sua “Historiarum libri” narra di un banchetto, offerto da Cesare, allietato dal vino “Mamertinum”proveniente, appunto , da Messina, l’antica Zancle che, nella monetazione del 525 a.C., si mostra attenta al culto di Dioniso rappresentando sul dritto un delfino nell’arco del porto e nel rovescio una conchiglia, simbolo di Venere che da Bacco ebbe Priapro, al quale furono riservati gli stessi onori rivolti al padre, essendo custode dei giardini e nume della procreazione, gli sacrificavano il solito, innocente asino.
Anche Naxos, una delle polis fondate dai colonizzatori greci (che nella Trinacria portarono pure la vite), con Zancle, Catania, Siracusa, Megara, Iblea ed altre, coniava nel 430 a.C., la moneta con la testa di Bacco da una parte e sul rovescio un sileno ebbro, testimoniando come fosse importante il culto al dio del vino collegato alla coltivazione dei vigneti, una delle attività agricole più importanti, col grano e l’olivo, e si precisava la tecnica per la trasformazione dell’uva in vino secondo un sistema rudimentale di pigiatura effettuata con i piedi, (operazione ancora praticata nelle nostre campagne) nelle vasche per travasare il mosto, trasferito, dai palmenti alle giare, con gli otri, (un mezzo usato fino agli anni sessanta)o nei “dolium” dell’età romana, quando nascevano i primi tinozzi costruiti con doghe di legno, detti “culei” antenate delle botti.
E, a fermentazione compiuta, il mosto si travasava in altri “pithoi”, per lasciarlo schiarire, preventivamente trattati con “l’impeciatura”per non alterarne il gusto, e, per conservarlo a lungo, il vino, si mischiava con l’acqua di mare in proporzione di uno a un terzo, virtù trasmessa da Dioniso che del mare fece il luogo della salvezza, quando, per sfuggire ai pirati che assaltarono la sua nave, diretta in Italia, si tuffò nelle onde trasformando gli aggressori in delfini, ordinando il loro capo, Acete, primo sacerdote del culto misterico.
Che si rinvigorì nell’età romana con le “Vinali”, feste del vino celebrate il 22 aprile e il 19 agosto, unitamente all’alto consumo del vino (che si mesceva nelle “tabernae”, aperte in gran numero nel Foro Boario e all’Olitorio) bevanda basilare nei riti bacchici che si celebravano nelle ore diurne sino a quando, la matrona Pacula Annia, convinta di portare in se lo spirito di Bacco, organizzava le processioni, a lume di fiaccole, aprendo ai giovani la partecipazione alla liturgia della iniziazione riservata sin lì alle sole donne.Il corteo, diretto da Annia, antenata delle moderne “Maitresse”, seguiva un grande simulacro di fallo intagliato nel legno di fico (albero nato dalla trasformazione della ninfa amata da Bacco) attorniato da fanciulle discinte, con i capelli ornati di pampini, che offrivano canestri di uva e di fichi, emblema dei prodigi di Bacco, ma pure di noci, simbolo dell’unione coniugale e anfore di vino che rendevano ebbri i partecipanti coinvolti, infine, in atti licenziosi orgiastici e, a sbronza finita seguiva l’estasi contemplativa, la serenità dell’anima per sentire l’afflato con l’entità divina e i giovani iniziati potevano indossare la toga virile.
Tuttavia, il vino mantenne oltre il paganesimo e l’ebraismo, il suo carisma sacrale nel cristianesimo, simbolo del sangue versato da Gesù per la salvezza dell’uomo, ed è da ricordare il miracolo operato dal Salvatore, alle nozze di Cana, quando trasformava l’acqua in vino, un avvenimento non dimenticato, nei secoli a venire, dai vinai che ancora usano trasformare l’acqua , nel dolce nettare degli dei, mischiandola con indegni intrugli, tanto che, si racconta, un contadino prossimo a consegnare l’anima a Dio, chiamò a se il figlio per ricordargli che il vino si poteva fare anche con l’uva!.
Il vino, inoltre, mantenne il suo valore con i bizantini che si sovrapposero ai romani nel dominio dell’isola, ma con l’avvento degli Arabi che conquistavano la Sicilia tra l’VIII e il X secolo, il vino, fu bandito per motivi religiosi dalle mense, unitamente alla carne di maiale, ritenuto animale immondo, ma introducevano la coltivazione delle arance e dei limoni, canna da zucchero, albicocche, susine, cotone, canapa, datteri, zafferano, carruba e gelsi, alberi basilari per l’allevamento dei bachi da seta, fonte di ricchezza dell’isola e di Messina in particolare, sino all’età barocca, e pure i meloni d’inverno- nufag e la cipolla- qalawari-allungata e succosa, detta, oggi, di Tropea, ottima, se immersa nell’aceto, quando s’accompagna alle costardelle fritte, una simbiosi di gusti e odori che compongono il caratteristico “cijauru” che si spande sull’effluvio del mare dello Stretto.
Ma la ripresa della produzione del vino avveniva con l’arrivo dei Normanni, che iniziavano la conquista dell’isola nel 1061, e la coltivazione dei vigneti guadagnava le zone collinari tornando, il vino, a onorare la mensa dei sovrani, nobili e plebei e il valore commerciale assunse sempre più consistenza se, nel rinascimento, il nostro Antonello accettava sei salme di mosto, del valore di un’oncia d’oro a saldo del pagamento di un dipinto- il polittico Di San Gregorio- eseguito nel settembre del 1473, nella città di Messina, famosa per la produzione della “guarnaccia” (vernaccia), un vino dolce e liquoroso, una sorta di malvasia di Lipari.
Così come, la scansione della coltivazione della vite, la raccolta dell’uva e la conservazione del vino, diventeranno argomenti iconografici per ornare l’interno dei templi con preziosi mosaici, per narrare la Genesi e il Vangelo, dove il Cristo si rappresentava tra viti e tralci al pari di Bacco nelle decorazioni classiche, argomenti ripresi nei fregi delle facciate con sculture sempre evocative di un parallelismo tra il Messia dei Greci e quello dei cristiani, entrambi figli del Cielo e della Terra,una prassi simbolica che Pachimere, scrittore bizantino, diceva “in armonia con la nostra natura e la nostra maniera di concepire”.
In tal senso Antonello celava nel San Sebastiano, il Bacco-Natura e Cristo sacrificato, e il rapporto messianico tra il Mito ellenistico e il cristiano lo riversava nell’arte figurativa pure il neoplatonico Leonardo da Vinci, il grande mistagogo che riusciva a sommare “lo spirito alla forma”,i due sessi alla bellezza, come affermava Ciprien, e il suo Bacco, custodito nel museo del Louvre, costituisce l’archetipo di tale concezione artistica.
Infatti, restituisce il simbolo androgino dell’unione della natura umana e divina presentando Bacco ignudo, con una sorta di perizoma di nebride (la pelle di cerbiatto di Bacco, simboli del cielo stellato)seduto contro uno sperone di roccia, propaggine di un bosco, e con le gambe incrociate segno misterico del dio del vino, dalle fattezze efebiche con l’epidermide chiara percorsa da tenui passaggi chiaroscurali di natura prassitelica e il viso, illuminato dagli occhi penetranti, ornato da lunga inanellata chioma percorsa da tralci di vite. Inoltre indica, con l’indice della mano destra, il “Tirso”che tiene nel seno dell’altro braccio, per dire della sua immortalità, mentre l’indice della mano sinistra lo rivolge verso terra, l’altra sua natura e pure degli inferi, simbolo dell’energia nascosta conosciuta dagli iniziati; egli è androgino, come suggerisce la pianta di aquilegia dipinta in primo piano, fiore androgino, nella formula cosmogonica del doppio in “Uno: Giove-Bacco, Dio-Cristo, entrambi vendemmiatori di anime. E, nell’altra metà del dipinto, l’arcano si apre alla luce di un paesaggio, che nelle lontane montagne diafane ha un impalpabile fondale, dove campeggia, esile, il pioppo, il legno con cui si costruì la Croce e ai suoi piedi si distingue il cervo, emblema delle anime che aspirano alla vita eterna, quindi, tutto rimanda alla rivelazione della figura di Cristo.
Anche il Caravaggio propone il suo dio del vino nel Bacco giovanissimo (dipinto custodito agli Uffizi), seduto e parzialmente coperto da una avvolgente clamide, nel gesto di ostendere un trasparente calice colmo di vino, dinnanzi a una tavola bandita con una brocca di vetro contenente il sacro nettare e un canestro di frutta. Il volto tondo, con i capelli ornati con vistosi pampini, ha lo sguardo languido che prelude l’ebbrezza, segno del viaggio che si accinge a compiere (il nodo della cintura che stringe con mano destra) che lo porterà al risveglio dell’ubbriachezza, alla estasi contemplativa, mentre dalla frutta vengono altri segni, dati dall’uva (il sangue del sacrificio) come dai fichi,che dicono della memoria dei prodigi operati dal figlio di Dio, le pere cotogne emblema dell’amore e la felicità raggiunti con la pratica dei riti celebrativi e la pesca perché Egli è l’Arpocrate, colui che osserva il silenzio sino al tempo della rivelazione, allora nel Bacco si cela il Messia dei cristiani, Cristo, il Salvatore dell’umanità.
Oggi il vino ha perso la connotazione sacrale, tranne che nelle celebrazioni della Santa Messa, ma continua ad allietare la mense e per levare brindisi nelle ore liete o preludio di sfide mortali, e seppure prevalga il trattamento industriale nella lavorazione dell’uva, non si è spenta l’atmosfera inebriante, che permea i luoghi dove tale attività si svolge, di intenso, dolce e molle odore di mosto e il rapimento della fragranza del vino che, vento di tramontana permettendo, si spilla tra novembre e dicembre quando in autunno “.. un po’ di sole, una raggera d’angelo, e poi la nebbia; e gli alberi, e noi fatti d’aria al mattino”. (Quasimodo)
L’OLIO
L’olio, forma col pane e col vino la triade della alimentazione dei popoli del Mediterraneo.
La pianta, dalla cui drupe si ricava l’olio, fu introdotta nella Sicilia orientale dai colonizzatori greci, tra l’VIII e il VII secolo a.C., divenendo parte integrante del manto vegetale nelle fasce costiere e collinare dell’isola e l’olio e le olive, esaltate da Diogene, entravano nella mensa degli indigeni unitamente alle fave, lenticchie, piselli, vecce, aglio, melo cotogno, fichi caprificati, cocurbitacei e gallette, connessi ai pesci e alla carne, che veniva consumata nelle ricorrenze festive, dopo le cerimonie sacrificali.
Ma l’olivo, considerato sacro, fu oggetto di venerazione-dendrolatria- e collegato, secondo il Mito, al nume Ercole Eraclito, al quale si attribuiva l’introduzione della pianta in Olimpia ed elevato a simbolo “della forza vegetativa a principio di ogni esistenza” e per questo motivo, messo a dimora presso gli altari e in piena terra, circondato da un muretto a secco, spazio sacro, dunque, e recinto utile per proteggerlo dai ruminanti.
Così come la sacralità veniva sottolineata dai molti significati emblematici, essendo l’olivo simbolo di saggezza, Vittoria, Concordia, Pace, Eternità e altre espressioni, cosicchè le argentee fronde ornarono il capo di Giove e di Minerva, e proprio alla dea della ragione era dedicato l’olivo piantato nel recinto adiacente il vestibolo dell’Eretteo e custodito da Pandroso, la figlia del mitico fondatore di Atene, creatore dell’Acropoli e dell’Aeropago, nel 1682 a.C., Cecrope.
Inoltre l’olivo, che divideva la sacralità col Pino, la Palma, il Fico, il Cipresso e il Platano, questi ultimi consacrati a Cibele, era talmente carismatico da costituire, col taglio, il più grave oltraggio che si potesse infliggere ai vinti, e pure al centro delle processioni propiziatorie che si tenevano durante la fioritura e ripetute per la raccolta delle olive con il culto celebrativo condotto dalle sacerdotesse (la donna intermediaria con la divinità) che, nude e in preda al parossismo orgiastico, come baccanti, compivano salti attorno agli alberi provocando la caduta delle olive, mentre su un altare, un uomo in ginocchio, assisteva in preghiera all’evento.
Infine, si concludeva il rito, con la liberazione della colomba, personificazione di Cerere, seguito, il cerimoniale, dallo sdradicamento dell’albero per liberare gli spiriti benigni che albergavano nelle radici, esorcizzando così, l’abbondanza della fioritura prossima e, quindi, ottenere buoni frutti.
Comunque, ai primordi, il trattamento per ricavare l’olio dalle drupe si praticava, nell’ambito familiare, utilizzando rudimentali arnesi composti da un cilindro di pietra cavo, con alla base esterna una ghiera-canaletta per convogliare l’olio nei recipienti, che veniva dalle olive frantumate tramite un mortaio di forma conica, attraversato da assi di legno per essere impugnato agevolmente. L’olio, allora, si mescolava con l’acqua per far decantare le impurità e dove la produzione era cospicua, come nei possedimenti di chi deteneva il potere, nell’isola di Creta, la culla della civiltà greca e occidentale, il prezioso oro vegetale, si trasferiva con gli otri, nei grandi pithoi, grosse giare che misuravano due metri di altezza e oltre quattro di circonferenza e, interrati nei magazzini (considerati luogo del tesoro) i pithoi erano pure utilizzati per contenere il vino, il grano, cereali e oggetti preziosi.
E l’olio, nei poemi omerici citato come unguento, fu utile per l’igiene della persona, oltre che essere un ottimo alimento e fondamentale per l’illumunazione, un segno che poneva in evidenza la copiosa produzione nel mondo classico e le lucerne davano luce nei palazzi e nelle capanne, segnando nel corso della storia, la salute economica delle regioni che, dell’olio , ne facevano merce di esportazione.
In realtà, se il valore nutrizionale ed economico non è mutato nel corso dei secoli, il metodo della spremitura delle olive si è evoluto sullo stigma dei trappeti primitivi che saranno sostituiti dalle macine, ruotanti su assi spinte dalle bestie da soma o dagli schiavi, sino ad essere azionati dalle macchine, e per eliminare le impurità dell’olio, è sempre valido l’uso dell’acqua nelle varie fasi della frantumazione per ricavare l’olio di prima e seconda qualità, per infine , dalle acque reflue ottenere i grassi per la fabbricazione dei saponi e, dalle sanse, mangimi per gli animali, concimi e persino combustibile.
Anche presso gli Ebrei, l’olio, oltre che utilizzato come alimento, unguento e per l’illuminazione, assume un ruolo carismatico per il rituale celebrativo, come ricordano i Salmi dell’Esodo, quando citano Mosè che trasmette al suo popolo gli ordini ricevuti dal Signore, esortato a preparare un unguento di aromi composti dal miscuglio delle canne aromatiche, mirra schietta, cinnamomo odoroso, cassia e olio d’oliva, da usare per la sacra unzione “..per tutte le vostre future generazioni” e, ancora il Signore, obbligava i figli di Israele di portare dell’olio puro d’oliva per alimentare le lampade del Tempio e il Candelabro a sette braccia.
Così come, l’olivo, nei tanti significati emblematici, trslava nei Vangeli, con le fronde che simboleggiavano, oltre i significati già accennati, pure Mari Vergine, le Vergini Savie e le Stolte, una parabola fondata sull’uso dell’olio, che alimenta le lucerne per illuminare il cammino al Padrone che viene a visitarle (Cristo)praticato dalle prime e lo sciupio operato dalle seconde, che rimangono al buio (i peccatori) e le fronde dell’albero sacro furono agitate dalla folla che salutava Cristo all’ingressso in Gerusalemme, mentre all’ombra degli olivi, lo stesso Gesù, sul monte eponimo, si congedava dagli apostoli per andare incontro al suo martirio.
In seguito, con l’affermarsi del credo cristiano, l’olio divenne il crisma per eccellenza, poiché accompagnava, e accompagna, i fedeli lungo l’arco della loro esistenza, dal Battesimo alla Cresima, per l’estrema Unzione ma anche per la consacrazione dei sacerdoti, degli altari e per alimentare le lampade votive, accese davanti alle edicole sacre e presso i Tabernacoli, nel segno della continuità con l’antico Testamento.
Presso i romani, invece, che rivolgevano il culto pure al “Ficus Ruminalis” secondo Plinio, l’olivo non era conosciuto al tempo di Tarquinio il Vecchio (738 a.C.), ma Virgilio mostrava di conoscere la pianta scrivendo che era “tarde crescens”, in quanto fioriva dopo ventanni dalla messa a dimora, per cui escludeva chi lo piantava di goderne i frutti, ma tale carenza veniva abbondantemente colmata dalla Sicilia, provincia romana dal II secolo a.C., considerata una sorta di riserva alimentare, come ricordava Columella, che raggiungeva, nell’età imperiale, il massimo dello sfruttamento, traendo dall’isola vino, grano, olio, miele, allume,lana, zolfo, cavalli, armenti, legname e smeraldi, e si ha memoria che sullo Stretto di Messina “..400 agricultores lavoravano nelle sessanta ville rustiche dei Valerii..”.
Per la Sicilia e per i siciliani, però le cose non andariono meglio con l’avvento del potere bizantino, fiscale e vessatorio, che completava i danni procurati dal gotico re Totila, e per l’incentivazione dei latifondi gestiti dai monaci Basiliani che suddividevano in “Mandre”-monasteri fattorie-; “Grange”-fattorie minori- nel cui ambito gemmavano nuovi insediamenti abitativi, indicati col nome di “Masse”; san Giorgio, Santa Lucia, San Giovanni, e San Nicola, sulle colline dei Peloritani nel comprensorio di Messina, capoluogo nella Valdamone dove si “contavano ben 70 luoghi basiliani”. In un organismo agricolo così congegnato, secondo Michele Amari, mancò del tutto la produzione dell’olio, una riflessione che trova fondamento su quanto asseriva, nel III secolo, il cronista arabo Beladur, per il quale, i “Rumi” (bizantini) non avevano olivi, affermazioni in certo qual modo, smentite da Papa Gregorio, quando ordinava la distribuzione di “due orcae d’olio di produzione ecclesiastico locale, unitamente al pane, vino e galline in occasione della “dedicatio dell’Oratorio di Santa Maria in Palermo”,segno che la produzione olearia non era affatto estinta.
Solo con l’occupazione degli Arabi, tra l’VIII e il X secolo, la produzione agricola riprendeva vigore grazie ai nuovi sistemi di irrigazione dei campi e all’introduzione di nuove colture, creando picccole proprietà, assegnandole ai contadini, lottizzando i feudi ecclesiastici e demaniali. Con la presenza dei Normanni e degli Svevi, invece, l’organizzazione delle campagne non subiva sostanziali mutamenti, anche se i nordici, all’olio, preferivano il burro e grassi animali, mentre Federico II, dava nuovo impulso alla creazione di nuovi casali, promuovendo la coltivazione della canna da zucchero, la vite e il cotone, campagne che, in seguito, verranno inglobate nei feudi che si formeranno a beneficio dei dignitari al seguito degli invasori, all’insegna dello sfruttamento della terra e dei coltivatori, una prassi che si consolidava nel tempo, tanto che Micio Tempio, nell’età dei lumi, bollava l’ignobile illecito con i famosi versi icastici così recitanti:”.. cussì lu fruttu di lo tu suduri/ misiru agriculturi/ passa di manu e va a li denti/ di cui sedi e non fa nenti..” che si accompagnava all’ipocrita considerazione per i contadini, adusi a cibarsi di pane raffermo e olive perché di buona salute, mentre ai padroni era vietato tale “privilegio” perché acciaccosi e costretti a mangiare manicaretti delicati e scialbi.
L’olivo e l’olio, nell’ambito della vita agreste, furono inoltre tra i motivi iconografici prediletti per le decorazioni musive e scultoree dei templi paleocristiani e medievali, intese le rappresentazioni, nella funzione pedagogica e fonte di ispirazione evocativa di preghiera, essendo il lavoro dei camp,i celebrativo, nella scansione delle stagioni, e subordinato alla clemenza della divinità per i buoni esiti nella raccolta dei frutti. Un tema presente sulla facciata del Duomo di messina, con gli anaglifi scolpiti, nella prima metà del ‘400, dal Baroccio e dai suoi collaboratori, che illustrano le varie fasi del lavoro riferiti alla vite, al grano e alla raccolta delle olive, la frantumazione nel trappeto, con le macine spinte dagli animali e la conservazione dell’olio nelle giare. In un contsesto, quello rinascimentale, in cui si verificava un incremento nella produzione dell’olio, e malgrado l’instabilità climatica di quegli anni, gli inverni freddi e stagioni siccitose, l’isola mantenne il suo potenziale produttivo fagocitato dai dominatori Spagnoli, Piemontesi, Austriaci Borbonici e ancora dai Piemontesi, sino a fare felici Carlo VI d’Austria (tra il 1720 e il 1734, incentivarono, gli austriaci, la coltura del grano, dell’olivo, gelso prodotto per lo sviluppo delle manifatture di seta, drappi e l’industria per la produzione della carta, sapone e vetro) e di Carlo III, re di Napoli e di Sicilia (1734- 1759) che traeva dall’isola tutti i prodotti della terra e manufatti, non trascurando l’argento di Fiumedenisi e inoltre non disdegnando le opere d’arte per arredare la nuova regia di Capodimonte, dove venne trasferito, da Messina, il dipinto “l’Andata al Calvario”, opera del pittore Polidoro da Caravaggio, tolto alla chiesa dei Catalani.
Ma l’olio, reggeva pure il suo primato nella mensa di tutti i ceti sociali e, sin dal secolo XV, nelle “calderie” (bettole) si consumavano olive, formaggio, pesce salato e fresco, frattaglie e ceci, fave, lenticchie, e minestroni di verdure, tutto condito o cotto con l’olio, compreso il gustoso macco, composto di fave secche sgusciate, messe a cuocere in un recipiente detto “ad opus minandi maccum”.
Ed oltre che rendere i cibi appetibili, l’olio fu (o lo è) materia prima per le fattucchiere che lo usavano per liberare dal malocchio, incombente sulle case e nelle persone (che si manifestava con forti mal di testa) procedendo a una sorta di rito utilizzando un bacile colmo d’acqua, posto al centro della casa oppure sul capo del sofferente, nel quale la celebrante, lasciava cadere delle gocce d’olio, segnando più volte la croce e mormorando la formula magica che recitava:”..fora malocchiu, intra bonocchiu, ppi la Santissima Trinità si c’è malocchiu supra (il nome del malcapitato) a mari mi si nni va..”.
In seguito, dopo l’interpretazione delle forme assunte dall’olio sulla superficie dell’acqua (chiarivano la provenienza del flusso malefico)la cerimonia proseguiva spargendo, ai quattro canti della casa, pugni di sale, sempre segnando la croce, per tre volte recitando l’anatema così espresso: “.. sali supra sali, supra a fissa di mavari, fora cani niru, fora cani niru (il diavolo).. “, liturgia che si trasferiva in cucina, ripetendo la formula magica sopra citata, gettando il sale sui carboni ardenti delle fornacelle, d’inverno, pure sulla “ginisa” (carbonella) dei bracieri.
Ma oltre alla funzione apotropaica (veniva, sin dall’età romana, spalmato sugli stipiti delle porte per respingere gli spiriti del male) l’olio venne applicato nella medicina empirica per alleviare le scottature; caldo attenuava i dolori articolari, così come per curare la stipsi, ed emulsionato con lo zolfo, l’olio guariva la malattia cutanea della scabbia, una infezione che afflisse la gente, costretta a vivere durante la seconda guerra mondiale, come talpe nei ricoveri antiaerei, privati di ogni genere di vitto e di una adeguata igiene, ed è da ricordare che l’olio, sino agli anni quaranta, lo usarono le fanciulle per ammorbidire le chiome e pure per stanare i pidocchi dalle cespugliose teste dei ragazzi con l’ausilio del famigerato pettine “strittu”.
Eppure l’ombra delle celebrazioni agrarie di memoria greca, si proietta, ancora nelle solennità cristiane collegate all’olivo, dalla fioritura alla raccolta delle olive e all’olio, la cui protettrice è personificata da Santa Oliva, venerata in Pettineo, cittadina dei Nebrodi.
Il simulacro, che tiene in mano un serto di olivo, viene condotto in processione più volte nella stagione primaverile ed implorata, per ottenenre buoni raccolti, col ripetitivo ditirammo:”..Santa Oliva sinu a rarica s’havi ‘nchiri..” (Santa Oliva sino alle radici si deve riempire di frutti l’albero).
Anche il tipo di martirio sofferto dalla giovane vergine, si ricollega al rito del “puro caldaio” citato da Pindaro, simbolo dell’oceano ribollente, caldaio con l’acqua bollente, quindi, nel quale furono immersi Diòniso, Pelope, Achille e altri numi per mano dei loro genitori, per riemergere rigenerati e immortali, una forma rievocativa d’iniziazione per il passaggio all’età adulta o in altre fasce sociali.
Infatti, la santa, fu messa a bollire nell’olio del caldaio, dal crudele genitore per costringerla all’abiura, col risultato di vedere la figlia diventare sempre più radiosa prima di soccombere alla inumana sofferenza, un supplizio che le guadagnava l’immortalità sancita dalla Chiesa.
Sul versante laico, l’olio mantiene il suo primato sia nella prassi familiare che industriale, essendo fondamentale per la conservazione dei prodotti ittici e delle verdure, anche nei barattoli di vetro, secondo una tecnica applicata in Inghilterra nel secolo XIX, sino alla composizione del profano “olio santo” ottenuto immergendovi piccanti peperoncini.
Tuttavia, condire il pane, appena sfornato, con olio, sale e pepe, oppure immergerlo nell’olio delle vasche dei trappeti, fa parte delle reminescenze dei sapori e degli odori che aleggiano ancora nelle nostre contrade, allorquando si attenua il dolce e soave effluvio del mosto, attraversato dalle trame di sciami di operose api, e subentra, nell’ombroso umido autunno, l’aspro e acidulo olezzo della sansa; luoghi elettivi che custodiscono struggenti memorie di quella civiltà contadina, presidio all’invadenza del modo di vivere odierno, tendente a cancellare la natura e inaridire i sentimenti dell’individuo, dimentico di vivere nell’isola del Mito dove “..fiumi lenti portano alberi e cieli nel rombo di rive lunari..” (Quasimodo).
Fortunato Pergolizzi
“Parentesi” 1998