Lettera aperta di una città mai nata
Editoriale di Filippo Briguglio
“Niente altro in Europa può essere paragonato alla Marina di Messina…” scriveva nel secolo scorso – dopo un viaggio compiuto in Sicilia tra il 1879 e il 1880 – Frances Elliot, nel suo libro Milady in Sicilia. Affascinata dal panorama e dall’architettura della città dello Stretto, la scrittrice britannica si spinse a definire la passeggiata lungomare “più lunga, più elegante… di via Chiaia a Napoli; più selvaggia, più sana… più pittoresca della raffinata e leziosa Promenade di Nizza…; più ampia, più nobile, più variopinta dei moli di Marsiglia, più gaia e accogliente, più aperta di quella malinconica passeggiata al mare di Palermo con le sue file di alberi scheletriti rovinati dalle numerose tempeste…”
Fu la testimonianza spontanea di una viaggiatrice ammirata, come tante altre ve ne furono, di visitatori e di illustri cittadini.
Ecco cosa era Messina: non solo lo straordinario biglietto da visita dell’impareggiabile scenario dello Stretto, che scuoteva tutti gli osservatori, ma una città apprezzata e solenne che ebbe, fino al giorno del fatidico terremoto del 1908 – dalla cui distruzione fisica e morale non si è invero mai più ripresa – una funzione di cerniera tra l’hinterland ed il continente. Una città che fu testa di ponte di tutta la Sicilia grazie alla posizione geografica ed al suo attivissimo porto, che le garantirono per lungo tempo un ruolo di primissimo piano.
Una città, quella di ieri, protagonista in positivo dei fasti di un passato di cui oggi non resta altro che testimonianze scritte ed immagini.
Una città, quella di oggi, altrettanto protagonista in negativo dello squallore di un presente anonimo ed oscuro che la schiaccia ed incombe sui suoi figli.
Una città che non è una città, ma solo un caotico contenitore di case, strade, automobili, nella quale l’incapacità di amministrare, e le conseguenti condizioni d’invivibilità, sono diventate le uniche peculiarità. Un comprensorio amorfo, soffocato dall’inciviltà e dall’ignavia, il cui comune denominatore è l’insipienza degli amministratori – variamente colorati politicamente – che si sono succeduti alla sua non–guida.
Tanto si è detto e sempre si continua a dire su ciò che a Messina non funziona, su ciò che non si fa, su ciò che manca.
Sono stati spesi per Messina fiumi e fiumi di parole che sembravano poter aspirare a diventare fatti solo nell’imminenza di una qualche1 tornata elettorale, ma che – fatalmente, regolarmente – raggiunto lo scopo, collassavano, impigliate nella loro astrattezza: nulla di più, nulla di fatto.
Così oggi Messina è un agglomerato urbano – difficile definirla città – immerso nella negatività che altri hanno voluto e continuano a volere per lei: che sia la città acusticamente più inquinata, che sia agli ultimi posti della vivibilità cittadina non basta a sollecitare la coscienza degli amministratori, a coinvolgerli in una orgogliosa voglia di recupero e di riscatto. Risultati vergognosi che non sono un deterrente ma solo un ulteriore spunto su cui dilungarsi in un profluvio di parole, capaci di esaltare solo la vacuità e la vanità di chi, nei corridoi dei palazzi che dovrebbero contare, le usa.
E fino a quando in chi ci amministra mancherà la reale volontà di scrollarsi di dosso questo ghettizzante primato da cenerentola, fino a quando in chi è amministrato la sfiducia e la rassegnazione inibiranno la forza di reagire, il male endemico che affligge la città, cioè la sua mala-politica, resterà davvero un nemico incivile.
Il perché Messina sia stata condannata, alle soglie del 2000, a vedere stravolto e ridotto il suo antico glorioso ruolo di porta della Sicilia alla mera funzione di sterile e martoriato cordone viario di congiunzione, quale in effetti è diventato a causa del trauma quotidiano indotto dal traffico gommato, andrebbe ricercato negli oscuri intrecci instaurati tra interessi politici ed economici. Gli interessi di una classe dirigente arrogante che, mentre insiste nel mantenere gli approdi navali in un’area ormai nevralgica per la vita cittadina, allo stesso modo ha ritenuto e ritiene di dover continuare ad utilizzare per funzioni di snodo e di smistamento un’importante arteria, quale il torrente Boccetta, che ormai è parte integrante del centro urbano.
Recriminare sull’errata individuazione, già a monte, di questa larga strada a scorrimento veloce come svincolo autostradale vuol dire fare retorica e dietrologia sulla falsa interpretazione di ruolo sociale che la classe politica avrebbe dovuto e dovrebbe svolgere.
Ma non dovrebbe essere solo retorica interrogarsi sul perché chi si è presentato come portavoce del nuovo insista invece ostinatamente nel ripercorrere la strada degli errori di sempre, senza avere il coraggio di imprimere alla povera barca alla deriva che è ormai la nostra città un deciso cambiamento di rotta.
Perché non passare all’azione, spostando ciò che è da spostare – svincolo o approdo che sia -, creando parcheggi, costruendo strutture ricreative e di ritrovo, ripulendo le vie, valorizzando le strade che hanno oggi lo squallido aspetto di casba periferica cui un ambulantato dissennato e selvaggio le ha condannate? Perché non fare qualcosa di tangibile che altro poi non sarebbe se non l’espressione di una seria coscienza civile?
Ben si adatta alla nostra povera Messina una frase di Pasolini: “Talvolta è bastata appena una notte a trasformare la vita delle città”. È bastata una notte, nel lontano 1908, a distruggere tutta Messina; da allora la città ha continuato ad essere irrazionalmente ricostruita, ma i legami storici, sociali e di carattere del suo glorioso passato sono andati irrimediabilmente perduti. Ed ancora oggi, a quasi un secolo di distanza, una cosa fondamentale non si è riusciti a ricostruire: l’orgoglio di una coscienza civile indispensabile per restituire a quell’involucro informe ed isterico che è divenuta Messina la dignità di città capoluogo, prima che d’Europa – come vaneggia qualche tronfio cartello stradale. (914)
Filippo Briguglio
“Parentesi”Anno VII – n. 28 Nov. – dic. 1995