Messina e il suo passato nelle raffinate e solide tradizioni commerciali della città che fu. Dalla rilettura dei tempi fiorenti lo stimolo ad ambire una città diversa per non dovere scrivere, un giorno, la cronaca finale di uno sviluppo impossibile
Stellarlo Quacquaro
Sarà capitato a morti messinesi, osservando lo scenario dello stretto da uno dei colli cittadini, di provare uno strano senso di vertigine. Soprattutto se a quell’immagine dal vero si giustappone quell’altra immagine, cartacea e puntiforme, rilevabile in una comune carta geografica dell’Europa meridionale: Messina è quel puntino posto al centro esatto del Mediterraneo.
Non si sa, dunque, se attribuire quel senso di vertigine ad una sorta di moto centripeto o a qualcosa di simile ad una forza centrifuga: a negare validità sostanziale ad una condizione che si presuppone unica e irripetibile, fissata una volta per sempre dall’arbitrio della natura non meno che da quello degli uomini.
Passando dalla poesia alla prosa, i termini della questione non mutano. I termini opposti della questione: “centralità” /”eccentricità“. Se è chiaro – dovrebbe esserlo, almeno – cosa sussuma e racchiuda la categoria della “centralità”, appare specioso liquidare il problema Messina innestandolo in quel noto teorema della presunta “eccentricità” della città dello stretto. Addirittura in mala fede se lo si legge in una prospettiva storica. Troppo da vicino ricorda, infatti, quel famigerato slogan che a tutti i costi vuole individuare nei messinesi… i “portinai” di Sicilia. Sarebbe, rispetto alla Sicilia, ‘decentrata”, “eccentrica”, appunto, Messina? Niente di più naturale per una città che, nel corso di due millenni, ha misurato la sua stessa esistenza sul presupposto di una indiscussa “centralità” rispetto ad una realtà enormemente più vasta e non delimitabile “a priori”. Maturandone, peraltro, vocazioni, peculiarità, ragioni di sopravvivenza; insomma: una sua identità. Perduta, irrimediabilmente perduta. Se, con identità, come ha scritto recentemente il professor Antonino Checco, (docente di Storia del Mezzogiorno all’Università di Messina n.d.r.) si fa riferimento a “quei segni”, “quei legami col passato che fanno, di un insieme di uomini, una comunità”. Rintracciabile questa identità, prima che fosse reciso quel “filo” che avrebbe dovuto collegare Messina con il suo passato, nelle raffinate e solide tradizioni commerciali della città, in quell’ormai plurisecolare terminale di rotte marittime che era il suo porto. Non a caso, dunque, di “età della decadenza” ha scritto il professor Checco, ravvisandone l’inizio o, comunque, il momento determinante di partenza, nelle vicende susseguenti al terremoto del 28 dicembre 1908. Pervicacemente, quell’ultima generazione di messinesi, prima di rimanere schiacciata e sepolta per sempre nella rovina di case, palazzi, monumenti; in qualche caso, di essere letteralmente cancellata dagli incendi spaventosi che si svilupparono dopo che la natura, terrifica, ebbe sussultato, squassando per la seconda volta, a distanza di 125 anni, la città; fino all’ultimo, quella generazione cercò, strenuamente e coraggiosamente, di rimanere se stessa; e vi riuscì.
Mai rinunciando, o peggio, rinnegando le proprie vocazioni commerciali. Riuscendo a sconfiggere ogni minaccia di morte – di morte annunciata – specializzandosi in un determinato ramo produttivo e commerciale. Come quello degli agrumi, ad esempio. Attraverso il quale si era sviluppata, ramificata e sedimentata, negli ultimi decenni del secolo diciannovesimo e, di conserva, nei primi anni del ventesimo, una solidissima struttura produttivo-commerciale, che si connotava, particolarmente, per l’alto valore merceologico dei prodotti (Checco). Sfogliamo un documento dell’epoca. Nella “Guida Commerciale di Messina” di Nicolò Carlo De Tommaso, che è del 1885 – opera tutt’altro che completa, anzi, carente in più parti – si contano ben 72 “negozianti-grossisti”, dei quali 14 operano direttamente o indirettamente nel settore degli agrumi.
Ramo produttivo-commerciale, quello degli agrumi, che faceva di
Messina, come si legge in un recente libro del professor Rosario
Battaglia, “non solo… il principale centro di produzione agrumaria di
Sicilia, ma del mondo”; e del suo porto, “la prima piazza agrumaria
del Mediterraneo”.
Questa attività assunse, nella seconda metà del
diciannovesimo secolo, le connotazioni e le torme di un vero e proprio “delirio”. Così, perlomeno, si legge in un articolo dei tanti che
compongono una lunga serie apparsa sul quotidiano messinese “Il Nuovo Imparziale” verso la fine del secolo. Autore di quegli articoli è
un esperto ed autorevole operatore del settore: Giuseppe Pomara.
Come pochi a Messina – non pochissimi, si capisce – poteva dire
più di una parola di chiarimento e di ammonimento a proposito della
questione agrumaria, che in quella fine secolo aveva destato non poche preoccupazioni negli ambienti commerciali messinesi. E lo fa da par suo.
Grazie a quel patrimonio di conoscenze accumulato negli anni passati; ed in anni recenti. Durante i quali, Giuseppe Pomara ricoprì l’incarico di presidente della “Società Agrumaria G. Perrone & C”, compagnia la cui costituzione e la cui esistenza rappresentarono, per Messina, un importante e positivo esperimento nella direzione di una maggiore razionalizzazione della sua struttura commerciale. Una società agrumaria, la “G. Perrone & C”, il cui obiettivo era quello di
riunire tutti gli speditori di agrumi in un fascio”. Realizzando, attraverso un’accorta politica di noleggio dei vapori, quell’altro e preminente obiettivo “di porre un freno agli arbitri dei monopolizzatori dei noli”.
Quei mediatori di noli marittimi precipuamente, se non esclusivamente, interessati alle loro speculazioni; pochissimo interessati alla buona conservazione e al migliore esito, nei mercati internazionali, delle enormi quantità di casse di agrumi esportate dal porto di Messina. Gli scritti di Giuseppe Pomara possono sembrare – e lo sono, in effetti – scritti di carattere tecnico.
Hanno l’incontestabile pregio, non di meno, di farci conoscere, di farci
comprendere – a noi che oggi ci chiediamo come e a quali condizioni possa sopravvivere Messina – come e di che cosa vivesse Messina un secolo fa, poco più poco meno. Abbiamo appreso, per come Giuseppe Pomara ce ne ha informali, che Messina, in quella fine secolo, era attraversata da un delirio che ormai aveva investito in pieno la sua compagine economico-sociale. “La febbre” degli agrumi a Messina, infatti, “cambiossi in delirio”, allorché “trasformaronsi ad
agrumeti tutti quei terreni la cui coltivazione non fu più rimunerativa”: “gran parte dei vigneti e tutti i celsi diedero posto agli agrumi”. “Il delirio” continua Giuseppe Pomara trasformossi più tardi in mania”, quando “per gli agrumi si videro cadere sotto la scure, lussureggianti frutteti ed oliveti secolari…ricche ortaglie, come ad esempio, nell’agro messinese, quelle della Giostra, della Mosella e di Santa Marta”. “Gli agrumi” insomma “furono per lunghi anni la panacea non solo dei mali agricoli, ma dei mali economici della Sicilia e delle basse Calabrie, i quali svanirono nel gran movimento del commercio e delle industrie delle casse e dei derivati”.
Queste poche righe descrivono con rara efficacia la realtà vera
dell’economia messinese nella seconda metà dell’Ottocento; in una
parola, ne costituiscono la biografia. Che è quella di una città la
quale ha ormai definita ed articolata una propria “struttura delle convenienze”, trovando, al progressivo e fatale dissolversi dell’industria serica, un via di utile sbocco nel settore agrumario. Realizzando quello che, nella classificazione di Biagio Salvemini, può senz’altro definirsi “un inserimento “attivo” nel mercato”, per la presenza, all’interno della piazza messinese, dei “cervelli” delle operazioni, e soprattutto, come ha recentemente ribadito il prof. Checco, per il mantenimento in loco dei capitali. Tra il 1861 ed il 1887, nonostante l’entrata in vigore della tariffa del 1878 e l’abolizione del porto franco del 1879, l’esportazione degli agrumi
dal porto di Messina, si mantenne, grosso modo, in costante ascesa
(Checco). Fu a partire dal 1887, con l’introduzione della tariffa generale, che l’esportazione degli agrumi dal porto di Messina entrò
in crisi, toccando la sua fase più acuta nel settennio 1887-1893. Su
questa scia si muove l’attenta ed accurata analisi del Pomara, il quale non a caso parla esplicitamente dì crisi, usando sovente toni drammatici, nel solco della polemica meridionalistica. A dire la verità,
l’inchiesta ministeriale del 1897, a crisi – determinata dalla contrazione dei prezzi – ormai largamente superata, dava in considerevole crescita la produzione degli agrumi in provincia di Messina, la quale un anno prima, nel 1896, aveva abbondantemente superato addirittura i dieci milioni di centinaia di frutti. Non stupisce, dunque, una volta conosciute le connotazioni e le dimensioni di questa attività che contribuiva a denotare il porto dì Messina come porto “monocommerciale” (Battaglia), che il Pomara, guardando ancora alla crisi degli anni precedenti, si rifiuti di considerarla una semplice crisi agraria. “La crisi agrumaria” scrive “riflette un interesse complesso e quasi generale, e perde, per ciò stesso, la fisionomia propria, trasformandosi in crisi economica di primissimo ordine”. Una crisi che, a meglio leggere i dati, perdurava ancora fin verso la fine del secolo, dato che ad una crescente produzione agrumicola, non aveva fatto riscontro un correlativo e significativo innalzamento dei valori delle merci esportate. Pomara, a questo riguardo, è di una chiarezza apodittica: “Il valore dei frutti… figura…ridotto a zero”. Si tratta, a ben vedere, di una crisi sociale. E le pagine scritte dal Pomara, come poche sanno radiografare – vivisezionare, diremmo – la realtà socio-economica di fine secolo: quel complesso corpo, i suoi apparati, i suoi tessuti, i suoi gangli vitali. “Il movimento agrumario” scrive “si sviluppa febbrilmente nei magazzini di reazione e nelle fabbriche di essenze, di agro crudo, agro concentrato, cedrato di calce, acido citrico, scorze e frutti salmoiati… alimenta le industrie delle botti, delle ramiere, dei chiodi, della carta, dei fiori artificiali”, etc… Queste sono le dimensioni dell’indotto. Queste le conseguenze di carattere sociale: “Dagli agrumi… dato il meccanismo che fa muovere la macchina sociale, trae alimento… la gran maggioranza della nostra popolazione”. E cioè: “Dal produttore al trafficante, dall’industriale al noleggiatore al banchiere… ai fabbricanti, ramai, stagnini. bottai, incisori, stampatori… agenti di cambio, agenti di vapori, rappresentanti, spedizionieri, sensali, commessi, e incaricati”: insomma “sono eserciti interminabili che vivono degli agrumi”. I dati del censimento del 1901 relativi a Messina, del testo, non lasciano adito a dubbi. In quell’anno, in una fase di recupero della crisi, su una
popolazione di 147.106 residenti, ne risultavano occupati 55.854, per una media che sfiorava il 38%: media che mai più sarebbe stata
raggiunta negli anni a venire. Mentre, un anno dopo, sull’ammontare
complessivo dei redditi netti accertati per l’applicazione dell’imposta
di ricchezza mobile – calcolato per Messina in lire 17 milioni e 510
mila – ben 5.390.000 lire dovevano imputarsi alla categoria dei redditi
da capitale: per una media pari circa al 31 %, rispetto ad una media
nazionale calcolata al 35,4% (Checco).
E, in buona sostanza, il quadro socio-economico della città non sarebbe mutato fino al 28 dicembre 1908. Laddove, a partire da quella
data, gradatamente, anno dopo anno, tutto sarebbe mutato. Le glorie commerciali della città sarebbero fugacemente, illusoriamente
riapparse come l’araba fenice dalle macerie, per poi perdersi nelle spire dei facili arricchimenti oltre che dell’Insipienza. Ci credereste? Eppure, a sole due settimane dal disastro, il porto, dissestato nelle
sue strutture fisse dalla furia del movimento tellurico congiuntasi a
quella del maremoto, riprendeva a funzionare.
Il 10 gennaio 1909, difatti, la ditta Sorrentino effettuava la prima spedizione di agrumi. Il giorno seguente, la ditta “Francesco Saverio
Ciampa e figlio” avrebbe spedito dal nostro porto una partita di
agrumi ancor più considerevole.
Non si può dire, peraltro, che in quei concitati momenti, mancasse chi, lucidamente, intravedesse, fra gli scenari possibilità di sviluppo
della città rinata, il più concretamente realizzabile. Anche da parte
di non messinesi alla piena e totale riattivazione del porto, si annetteva l’unica vera e propria chance di ripresa della città. Tra i vari contributi, segnaliamo uno dei più prestigiosi, anche se non necessariamente tra i più importanti. Si deve alla penna di una delle prime firme del giornalismo italiano dell’epoca: Luigi Barzini. Inviato speciale per conto del “Corriere della Sera” a Messina immediatamente dopo la catastrofe, se ne partirà a metà di febbraio del 1909. Prima di accomiatarsi dai messinesi, Luigi Barzini indirizza loro alcune righe di saluto e di augurio, tenendo a precisare che occorre “dare subita alla città che nasce il centro generatore delle sue energie, la ragione prima della sua esistenza”.
Con maggior chiarezza: “Messina deve essere creata, protetta generosamente nel suo sviluppo, ma in modo che cammini da sé al più presto, e non debba rimorire d’inedia il giorno in cui la nazione troverà necessario cessare di prodigarle un soccorso speciale”. E dunque “se vogliamo veramente che Messina esista ancora dobbiamo cooperare alla sua resurrezione con chiarezza di vedute e risolvere immediatamente i problemi più urgenti”; innanzi tutto: “la riattivazione del porto, con le migliorie adatte ad invitare il commercio fuggito”.
E invece, vuoi per le difficolta sopraggiunte a causa dello scoppio della Prima Guerra
Mondiale, vuoi, soprattutto, per i ritardi accumulatisi in quella che
avrebbe dovuto essere e caratterizzarsi come una tempestiva riattivazione del porto nel senso auspicato da Barzini, lo sviluppo economico di Messina non decollò, né tanto meno si attinse la desiderata autonomia economico-produttiva della città. Gli ingenti flussi di spesa pubblica affluenti a Messina negli anni ’20, incoraggiarono la borghesia locale, che aveva fiutato l’affare, a buttarsi a capofitto nell’edilizia e nelle connesse attività produttive e di intermediazione Nel 1932, chiusosi il rubinetto dei finanziamenti, “quella tumultuosa baraonda di affari edilizi” si era ormai pressoché estinta. Cosi scriveva quell’anno colui che da molti è considerato il più grande giornalista messinese di questo secolo: Pietro Longo. Lo stesso che, nei primi giorni del 1909, aveva guidato Luigi Barzini tra le macerie della città distrutta. E che, 23 anni dopo, avrebbe, scritto, tra le altre, queste accorate parole: ”Nelle condizioni attuali il porto di Messina… è soltanto uno squallido rifugio di fortuna entro il quale lo Stato ha comodamente allocato alcuni suoi servizi…abbandonando completamente la parte sulla quale è destinata a svolgersi all’attività commerciale che deve alimentare la vita cittadina”. Riavutasi da una sorta di ubriacatura collettiva,” la città ricostruita si volge al suo naturale campo di azione. Esso e l’arido. Gli è passato sopra il progresso della moderna attrezzatura portuale ed il danno della catastrofe“. Prediche inutili quelle di Pietro Longo. La presenza dello Stato all’interno del porto di Messina sarebbe cresciuta e ciò avrebbe scatenato, nei tremendi giorni dei bombardamenti durante l’ultimo conflitto mondiale, la furia distruttrice dei bombardamenti angloamericani, i quali, con non minore sadismo sanguinario e demolitore, avrebbero pienamente investito la città appena risorta. Il volto di Messina si sarebbe conformato come tutt’oggi ci appare: “da emporio marittimo e commerciale, città di case, di botteghe e di uffici, sempre più dipendenti dai flussi di spesa pubblica”(Checco).
Abbiamo tentato di fotografare la fine di un’epoca; di tracciare le linee di un mancato sviluppo; per non dovere, un giorno, scrivere la cronaca finale di uno sviluppo impossibile.
Non è strettamente necessario conoscere i più sofisticati e aggiornati modelli teorici, per arrivare a capire che senza una attività che sia conglobante e originale, che valga a disegnarne un realistico progetto di sviluppo, Messina, nonché avviarsi ad un cronico e non più colmabile declino, si voterebbe alla morte.
Un’attività per cui la stragrande maggioranza dei suoi cittadini produca,
commerci, tratti, medii, esporti od importi. Un’attività che cancelli per
sempre quella degenere mentalità buracraticistica che ormai fa parte
del corredo genetico dei messinesi. Un’ attività che faccia degli abitanti di Messina, cittadini maturi e responsabili, guidati da una classe dirigente precipuamente preoccupata delle sorti e del benessere della città. La realtà del presente e del recente passato è tutt’altro che incoraggiante. Abbiamo celebrato
da poco i funerali della “Sanderson e con essa della gloriosa industria della trasformazione agrumaria a Messina.
Desta peraltro un certo raccapriccio il fatto di dover leggere, nelle etichette delle confezioni della “Birra Messina” – “Birra di Sicilia” – sapendo che, ormai da tempo, quella che dovrebbe essere la nostra birra, in realtà viene prodotta a Milano.
Scrivere delle disavventure del Gruppo Rodriguez, poi, temiamo occuperebbe lo spazio buono per un altro articolo. L’impressione generale che se ne ricava è quella dello smaltimento progressivo o, peggio, del malato terminale cui venga tolta anche la riserva di ossigeno. L’errore sarebbe quello di orientare ogni ipotetica scelta produttiva di rilancio dell’economia messinese sulla base di queste macabre aspettative. Cosi come sbagliato sarebbe pensare ogni piano d’intervento in termini di una ”unicità” presunta di Messina rispetto al più generale contesto dell’Italia meridionale, come spesso si è fatto in passato. I nostri avi non compresero, cento anni fa ed oltre, che Messina, con l’unità d’Italia, non era più quella città mediterranea avulsa da ogni più limitato riferimento topografico o regionale. E che dunque ogni peculiare interesse doveva contemperarsi con quelli superiori di Palermo o con quelli di una realtà emergente ed in fase di prepotente crescita demografica ed economica, come
Catania. Anzi, proprio da allora prese avvio quella che, a giusta ragione, potrebbe definirsi la ”regionalizzazione” di Messina.
Similmente, oggi, Messina si trova alle prese con i cronici problemi tipici di ogni grande area urbana meridionale marginalizzazione delle periferie, offensiva della criminalità organizzata e contestuale diffusione della microcriminalità, altissimo tasso di disoccupazione, evasione dell’obbligo scolastico, vergognosi disservizi, etc…
A tutto ciò si aggiunge il massacro, lo stupro quotidiano che il territorio cittadino di Messina deve subire.
La nostra città è ormai divenuta un’autentica “femmina pubblica” con
cui tutti possono fare il proprio comodo e per giunta senza pagare.
La rinascita di una città passa anche attraverso l’adozione di gesti
simbolici, quali ad esempio la riaffermazione di una propria dignità e
la riappropriazione del territorio da part dei suoi cittadini. Bisogna immaginare una sorta di nuova cinta daziaria, un cordone sanitario che risparmi al centro urbano di Messina “l’unico” – così l’avrebbe definito Antonino Caglia Ferro – attraversamento da parte del traffico gommato. La recente costruzione dell’autostrada Palmanova-Tarvisio ha salvato Udine dalla minaccia di assedio da parte del traffico pesante, che oggi lambisce soltanto le zone periferiche della città, là dov’è concentrata la maggior parte delle industrie cittadine. Com’era prevedibile, la qualità della vita dei cittadini udinesi ne ha risentito favorevolmente. Possibile che non si possa fare nulla, ma proprio nulla, per salvare Messina? Pensiamo di no, posto che effettivamente la si voglia salvare questa città. Ogni “piano di salvataggio” ipotizzabile non può prescindere da una visione realistica dei problemi e delle forze in campo. Per questo crediamo che il “mito” del porto di Messina e della sua congiunta potenza commerciale sia ormai pressoché definitivamente tramontato. Il nostro porto è da almeno un cinquantennio essenzialmente un porto di servizio, cui negli ultimi tempi si è affiancata una certa attività che ne ha sostanzialmente fatto altresì un grande porto turistico. Attività, se si vuole, dignitosa, purché si integri in una strategia più generale ed organica di sviluppo economico della città e della provincia. E questa,
tradotta in termini crudamente realistici ed elementari, postula la necessità di invogliare un gran numero di persone a venire qui da noi e rimanervi a lungo spendendovi dei soldi. Con tutto ciò che ne conseguirebbe dal punto di vista della creazione o del potenziamento di un indotto nella nostra provincia che, a dire il vero, non sembra affatto dormire. L’alternativa certa sarebbe quella di prolungare, chissà per quanto tempo, questa eterna condizione da condannato dimenticato nel braccio della morte, in attesa che venga qualcuno ad
aprire la porta della cella e a chiudere definitivamente la partita. ■
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Stellario Quacquaro
©” Parentesi” anno VII n. 27 marzo/ aprile 1995