Anche la città dello stretto, ha rivelato di avere una criminalità organizzata e una sotterranea connivenza tra politica e malaffare.
Tentiamo in questo dossier di fare un excursus storico-architettonico tra i corridoi di Palazzo Piacentini, per conoscere meglio i fatti e i misfatti. Ci accompagna nel nostro itinerario Tiziana, ventenne, messinese, studentessa di giurisprudenza, per un primo approccio con quello che potrebbe essere, domani, il suo mondo di lavoro.
di Filippo Briguglio
Da Milano a Messina…
“Mai Come in questi anni i tribunali di tutta Italia sono stati al centro della cronaca giornalistica e televisiva.
Quel nastro di partenza tagliato a M;ilani con l’arresto quasi casuale di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo
Trivulzio, per una tangente di sette milioni, ha aperto le porte di tutto il mondo sommerso di intrighi, connivenze
collusioni, corrotti ecorruttori:fattori,tutti, destabilizzanti per la costituzione democratica della Repubblica.”
Le inchieste, che rapidamente s’incastrano le une sulle altre come tessere di un malefico mosaico, assumono proporzioni enormi, ma non del tutto inaspettate poiché si sapeva che, da troppi anni, la vita pubblica scorreva prevalentemente sui binari della corruzione. Solo si aspettava che qualcosa succedesse. E quando finalmente questo qualcosa è accaduto, è dilagato travolgendo, a tutti i livelli, politici, amministratori, magistrati, industriali, professionisti: persone anche insospettabili.
I gravi fatti emersi in tutto questo periodo denunciano una fitta rete di piccole e grandi tangentopoli che stringono l’Italia.
E il fenomeno non sembra ancora destinato a esaurirsi.
L’opinione pubblica, in un alternarsi di perplessità e attesa, guarda agli eventi e ai segnali che finalmente sembrano denotare il risveglio delle istituzioni democratiche. Non più disponibili a subire il malaffare e le ruberie di quelle ampie fette di uno Stato connivente e deviato, i cittadini vogliono, adesso, solo risposte concrete: senza insabbiamenti, senza mezze verità, senza fuochi di paglia.
Ma cos’è cambiato, oggi, perché le istituzioni si siano finalmente scrollate di dosso il torpore, anche forzoso quando era parte di un più ampio gioco di potere, e dimostrino di volere recuperare quel ruolo per cui sono nate?
A cominciare dalla giustizia. I mezzi di oggi non sono, in fondo, quelli di ieri? I tribunali c’erano e ci sono così come gli organi investigativi; gli uomini c’erano e ci sono. Perché ieri non si faceva, o si faceva poco, e spesso solo quel tanto che bastava a mo di contentino per zittire la voce popolare, ed invece oggi si fa?
I magistrati di ieri, e con loro tutti quelli che hanno pagato con la vita il proprio alto senso del dovere verso la collettività che li aveva portati al punto di scoprire giochi che non dovevano essere scoperti, non ci sono forse anche oggi?
Di nuovo quindi, non è stato creato niente.
Soltanto è cambiato il fattore determinante: la volontà di fare e di andare fino in fondo.
Ieri, quelli che agivano, erano solo fatti isolati, frange “ribelli” e perciò incontrollabili e quindi pericolose, che andavano eliminate. Uomini lasciati troppo soli.
Oggi, invece, che la tensione popolare ha raggiunto il massimo livello e la gente vuole chiarezza rigore, una generale levata di scudi pretende che il marciume sia spazzato via.
Le cortine del silenzio e della complicità sono state in parte rimosse, all’omertà è subentrata la collaborazione: la giustizia deve fare il suo corso.
Ma bisognava proprio arrivare a toccare il fondo del degrado umano e civile, con tanto spargimento di sangue, perché le coscienze si risvegliassero e ci si rendesse finalmente conto che lo Stato democratico stava inesorabilmente precipitando nell’abisso di un pericoloso punto di non- ritorno?
Ecco perché, oggi, si guarda al Palazzo del diritto con curiosità. Ed ecco perché, guardando nei Palazzi, ci si accorge delle loro magagne: mancanze di organici, di strutture, di funzionamento. Che c’erano; ma venivano, per così dire, gestite in proprio.
Anche a Messina cade una pioggia di avvisi di garanzia eccellenti e custodie cautelari. Prima considerata la “provincia babba” la Città dello Stretto ha rivelato invece di avere, oltre la delinquenza comune, una criminalità organizzata ed una sotterranea centrale di connivenza tra politica e malaffare che ha investito ampie sfere della vita cittadina.
In una città dove, al contrario di ciò che è successo altrove, mancando i perni della grossa economia (Messina vive prevalentemente di terziario ed ha un alto indice di disoccupazione scolarizzata e non) mancava il terreno fertile per la corruzione, questo terreno, quindi, bisognava crearlo; ed i politici vi hanno provveduto dando vita a forme di pseudo – assistenzialismo esasperato (posti di lavoro, contributi, assegnazione di posti di comando che comunque garantissero il controllo di determinati enti) attraverso centri di potere gestiti con la fruizione del pubblico denaro (le inchieste sulle cooperative edili, sugli appalti pubblici, tanto per citarne alcune tra quelle emerse, lo dimostrano) di cui solo formalmente beneficiava la comunità, ma che in realtà alimentavano l’impinguamento ed i privilegi di chi gestiva questi centri di potere secondo precisi criteri di logica di spartizione.
A causa dei carrozzoni politici (difficili da mollare) e delle loro tragiche conseguenze è sotto gli occhi di tutti come la città stia piangendo lacrime di sangue. Perché, inceppandosi il meccanismo che ha sin qui sorretto la vita pubblica, anche tutto ciò che rientra in una routine di normale amministrazione, è bloccato. Con parte degli amministratori sotto inchiesta e con quelli che resistono allo sbando, Messina è adesso paralizzata.
E adesso che anche da noi qualcosa comincia a muoversi nel senso giusto, sperando che non avvengano più quegli insabbiamenti che negli anni scorsi hanno mortificato il lavoro di coloro che erano considerati semplicemente pretori d’assalto, vediamo in queste pagine di conoscere meglio la complessa struttura del Palazzo di Giustizia.
C’era una volta un ospedale
Il palazzo di giustizia è stato inaugurato il 28 ottobre 1928. Il ministero dei LL.PP. ne affidò il progetto all’architetto Marcello Piacentini nel 1912.
Il Palazzo fu edificato, dove c’era il cinquecentesco monumentale ospedale civico di S. Maria della Pietà. Dall’ospedale al tribunale il luogo rimane di grande tribolazione; laddove si cercava sollievo alla malattia oggi ci si attende giustizia.
Messina fu sempre una delle più importanti sedi di amministrazione della giustizia in Sicilia e fu la città che, forse più di ogni altra, godette, sin dai tempi più lontani e durante i secoli, di antichi privilegi e di speciali concessioni.
Per ragioni di spazio e di opportunità, il nostro excursus storico ha obbligatoriamente dei limiti temporali; ma non a caso partiamo, per una breve ricostruzione di come si svolgeva la giustizia a Messina, dal secolo scorso.
E precisamente da quella riforma borbonica del 1819 che riorganizzava il potere giudiziario in Sicilia e assegnava a Messina tutta una serie di organi giurisdizionali che, nella loro mutazione, arrivano gradualmente a trasformarsi e ad assumere l’assetto della macchina giudiziaria, così com’è oggi.
Tali organi erano: una delle sette Gran Corti Criminali; una delle tre Gran Corti Civili di Sicilia; il Tribunale Civile ed il Tribunale di Commercio, che trattava questioni di natura particolare, i quali in seguito, con l’annessione della Sicilia al Regno d’Italia, furono unificati nelle funzioni pur se divisi in distinte sezioni civili e penali; inoltre magistrature di natura locale quali i Regi Giudicati Circondariali, con funzioni civili e penali, corrispondenti alle attuali Preture, e la Supplenza Comunale con mansioni simili a quelle degli odierni Uffici di conciliazione.
La Gran Corte Criminale e la Gran Corte Civile esercitavano funzioni di appello e, dopo l’Unità d’Italia con l’entrata in vigore nel giugno 1862 del nuovo ordinamento giudiziario che unificava l’apparato della Giustizia, si fuse in un unico organo denominato Corte d’Appello, tuttora esistente, e costituito, già all’epoca, da varie sezioni: civile, promiscua, di accusa, correzionale.
Con i medesimi criteri operava, sia in materia civile sia penale, l’Ufficio di Procura Generale.
L’ubicazione di questi organismi non era unica: essi operavano in uffici diversi, dislocati nel centro storico della città, i quali subirono anch’essi la sorte distruttiva del disastroso terremoto che sconvolse Messina il 28 dicembre 1908 col suo pesantissimo fardello di morti, macerie e rovine e che ebbe, naturalmente, refluenze anche sulla conduzione della vita pubblica cittadina: molti uffici, e tra questi l’apparato giudiziario, furono decimati negli organici e le loro sedi annientate.
La ripresa dell’attività pubblica fu però immediata e, nonostante i gravissimi danni subiti, i superstiti cominciarono a riorganizzarsi e, attribuendosi le funzioni consone a ciascuno secondo la propria qualifica, procedettero alla graduale ripresa anche dell’attività giudiziaria. Le difficoltà incontrate furono davvero tante ed eterogenee. Bisognava ricercare i fascicoli processuali e ricostruire gli archivi e il casellario giudiziario. Integrare, compito questo che si rivelò molto arduo, i magistrati e i funzionari scomparsi, nonostante il governo avesse provveduto a trasferire d’urgenza a Messina nuovi elementi che però, terrorizzati dalla reale situazione ambientale della città, entro brevissimo tempo se ne andavano. Trovare locali dove esercitare l’attività giudiziaria perché gli uffici, ove non fossero stati distrutti, erano assolutamente inagibili, come del resto impraticabile era tutto l’abitato.
Per tamponare l’emergenza, in prima domanda la sede fu trovata usufruendo del piroscafo Savoia, ormeggiato nel porto; subito dopo si sopperì con l’immediata costruzione di baracche e padiglioni lontano dall’antico centro storico, travolto dai crolli e bloccato dalle macerie. E ai margini di esso, proprio per procedere alla immediata ricostruzione, il piano regolatore Borzì individua il luogo ideale per edificare il Palazzo di Giustizia, in modo tale da concentrare in un unico edificio tutti gli uffici, tra il quartiere Tirone e la via Porta Imperiale, nell’ampio terreno dove sorgeva il cinquecentesco monumentale Ospedale Civico di S. Maria della Pietà la cui realizzazione, iniziata il 12 ottobre 1542, era servita ad unificare 10 ospedali sparsi in tutta la città. La costruzione dell’edificio di forma quadrata su tre piani, guidata in vari periodi dagli architetti Antonio Ferramolino, Giovanni Carrara, Giovanni Maffei, Andrea Calamecca, Francesco Zaccarella da Narni, fu completato nel 1605. Lievemente danneggiato dal terremoto del 1783, fu completamente distrutto, insieme alla chiesa annessa, dal sisma del 1908.l’urgenza determinata dalla necessità di ricostruire al più presto gli edifici pubblici e la priorità attribuita in tal senso a ciascuno di essi in ordine di importanza fecero sì che, per la progettazione degli edifici primari, si soprassedesse al bando di concorsi nazionali, le cui lungaggini burocratiche avrebbero gravemente rallentato i tempi di ripresa dell’attività funzionale (cosa che invece successe ugualmente a causa di avvenimenti storici quali la grande guerra). E si scegliessero, invece, architetti che già avessero realizzato con successo altre opere urbanistiche di notevole entità.
Nel primo decennio del novecento si era particolarmente messo in luce operando in tal senso quel Marcello Piacentini, giovane architetto ed urbanista romano, figlio di architetto, che con brillante intuito architettonico aveva dato un elegante assetto d’insieme al centro urbano di Bergamo dove realizzò edifici pubblici (il Palazzo di Giustizia, l’Università, la Banca d’Italia ed il Credito Italiano, la Stazione Ferroviaria) coniugando armoniosamente la tradizione classica e rinascimentale e la razionalità di un modernissimo non esasperato seppure con un architettura imponente di forme. Così come suoi sono, tanto per citare solo alcuni dei suoi innumerevoli progetti, a Roma il Cinema Corso, il Teatro dell’Opera, la Città Universitaria, l’Eur, il Tempio della Pace, la Casa del Mutilato e, più tardi, Viale della Conciliazione; a Bolzano il Monumento ai Caduti, a Milano il Palazzo di Giustizia del 1940.
Il Palazzo
Il primo progetto di massima del Palazzo di Giustizia di Messina, subordinata all’osservanza di una rigida normativa edile antisismica nel frattempo varata, fu presentato da Marcello Piacentini il 28 settembre 1912. Approvato, i lavori di fondazione sono cominciati nel 1913 ad opera dell’impresa Porcheddu e subito sospesi a causa della grande guerra. Quando nel 1923 fu possibile riprendere la grande costruzione, affidata all’impresa Carmelo Salvato che magistralmente eseguì le direttive del progettista, Piacentini giudicò architettonicamente superato il progetto iniziale e presentò una nuova proposta per modificare radicalmente l’architettura, lasciando invariata la distribuzione degli uffici nei tre corpi ed innestando al modernismo moderato del primo progetto riferimenti al barocco ed al liberty che, nulla togliendo alla severità iniziale, ne temperano il rigore attestando la matura e convinta adesione del Piacentini ad un classicismo severo e monumentale. I lavori furono, quindi, rapidamente completati ed il 28 ottobre 1928 il Palazzo di Giustizia fu inaugurato durante una solenne cerimonia alla presenza del sottosegretario alla Giustizia ed alle autorità locali.
Pietre isolano prevenienti dalla zona di Palermo sono state scelte sia per la costruzione delle strutture portanti, realizzate con pietra giallo-oro di Solunto, sia per le parti ornamentali – colonne, decorazioni – create con pietra di Cinisi molto simile all’altra, ma più fina e quindi più adatta alla lavorazione e con pietra grigia di Biliemi – portali.
La maestosità e l’imponenza dell’esterno sono riproposte all’interno che si articola nel vestibolo, nel salone dei passi perduti che introduce alla Corte di Assise e alle due aule delle Preture, in una monumentale scalinata che conduce alla Corte di appello, oltre le lunghe gallerie che portano ai corpi laterali dove sono situate le aule del Tribunale.
Marmi neri lucidati di Biliemi impiegati per i severi colonnati, i portali, gli scaloni, iscrizioni latine amalgamate in un’elegante architettura d’interni con una ricca decorazione scultorea, che sottolinea la destinazione dell’edificio attraverso i soggetti usati, opera degli scultori Clozza, Riccardi, Marescalchi, Bonfiglio, Dazzi raffigurante busti di giuristi messinesi (come Lodovico Fulci e Francesco Faranda), allegorie della Legge, del Diritto e in terracotta rossa su fondo nero del Vero, del Bene e del Male, del Giudizio di Paride, le teste di Minerva – Pallade – Athena, festoni con cornucopie, medaglioni simbolici, teste di leone e la statua bronzea di Dazzi raffigurante la Giustizia conferiscono solennità all’insieme.
E mentre di solito “la massima parte della decorazione interna è affidata alla scultura anziché alla pittura, nel palazzo di giustizia di Messina l’architetto ha avuto la fortuna di potere creare con l’intelligente collaborazione di due pittori ancor giovani colti e vivaci a un tempo, Daniele Schmiedt e Adolfo Romano, un tipo di decorazione che fosse nello stesso tempo di sapore tradizionale, di espressione monumentale e di gusto moderno”.
Gli arredi, per i quali sono stati usati bronzo e legni pregiati, anch’essi studiati e curati personalmente da Piacentini, e armonizzati alle linee architettoniche del palazzo comprendono la progettazione dei mobili, dei severi e grandi lampadari e delle applique a forma di torcia, delle porte e ogni particolare incluse le maniglie, delle grandi librerie curve delle biblioteche, una delle quali appartengono all’ordine forense, l’altra alla Corte di Appello.
E ora, dopo sessantacinque anni dall’inaugurazione, il problema dello spazio si ripropone. Il Palazzo è insufficiente a contenere il lavoro della giustizia messinese.
Due piani, immensi corridoi, poche aule tanta confusione
Vediamo in questo spaccato la “radiografia” del palazzo di Giustizia di Messina. Dati e cifre non sono comunque sufficienti a rendere l’idea di come si svolge l’attività giudiziaria.
Il Palazzo di Giustizia occupa un’area di 16.000 mq. di cui 5.400 coperti e i restanti adibiti a giardini sia interni sia esterni, questi ultimi circoscritti da un’inferriata che ne racchiude i confini lungo le strade su cui esso si affacciano: Via Cesare Battisti, Via Nicola Fabrizi, Via Porta Imperiale.
L’imponente aspetto dell’edificio principale, caratterizzato da un severo colonnato e preceduto da un’ampia scalinata, invece si affaccia sulla vasta Piazza Maurolico, e fronteggia la sede centrale dell’Università da cui è separato dalla via Tommaso Cannizzaro, una delle principali arterie di Messina.
Al centro lo sovrasta, alta in tutta la sua imponenza, la grandiosa quadriga bronzea dello scultore Ercole Drei che raffigura Minerva, dea inflessibile, che fa cenno di sedare le eterne risse degli uomini.
Il Palazzo si compone di tre corpi, ciascuno dei quali ha ingresso indipendente pur essendo collegati tra loro internamente per mezzo di due lunghe gallerie che mettono direttamente in comunicazione le tre sale cosiddette dei passi perduti, mentre ogni aula ha immediata comunicazione con tutti gli uffici annessi.
Il corpo centrale, alto 16 metri, ospita al piano terra le due Preture e la Corte di Assise e al primo piano, cui si accede da un maestoso scalone, le due aule della Corte di Appello.
I corpi laterali, ciascuno alto 12 metri e con due aule, non allineati rispetto all’asse stradale a causa del pendio del terreno, sono leggermente incassati quello lungo la Via Porta Imperiale destinato al Tribunale Penale, fortemente sollevato quello sulla Via Cesare Battisti destinato al Tribunale Civile.
Nel Palazzo ogni giorno è un via vai di persone che entrano, escono, salgono, scendono: avvocati, magistrati, semplici cittadini. Molto spesso la gente comune che deve andare in qualche ufficio specifico si perde nei meandri dell’edificio senza riuscire a raggiungere il posto cercato o si aggira smarrita nei lunghi corridoi.
Non esistono frecce direzionali, cartelli indicatori, non c’è l’ombra di un usciere né di addetti incaricati di comunicare informazioni.
Se qualche persona si trova, è o per sentirsi frettolosamente liquidati, con un “scusi, ma sono impegnata in cose più urgenti”. E allora che fare? Spesso non rimane altro che fare mente locale per rintracciare nella memoria un amico o un conoscente che lavorino nel Palazzo.
L’aula bunker
Voluta dal Ministro di Grazia e Giustizia, realizzata a tempo di record dall’impresa Grassetto di Perugia per un costo complessivo di 4 miliardi, viene consegnata, seppure priva di arredi ( il pretorio ed i banchi per avvocati e giornalisti vengono collocati dopo un paio di giorni) alla magistratura il 10 aprile 1986, nel rispetto dei termini stabiliti, in tempo per la celebrazione di uno dei processi più importanti della storia giudiziaria di Messina, considerato il terzo processo in assoluto per numero di imputati dopo quelli alla mafia siciliana e alla camorra.
Il primo processo celebrato, infatti, è stato il maxiprocesso nei confronti di 245 imputati accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso finalizzato al traffico di sostanze stupefacenti, membri di quattro organizzazioni criminali modellate secondo criteri mafiosi.
Il lungo e tormentato iter processuale, svoltosi prevalentemente in un clima di tumulti e di grande tensione, si concluse con la sentenza emessa nel marzo 1987 che “vedrà assolti ben 180 imputati sui 245 giudicati, destando notevole perplessità nell’opinione pubblica cittadina. Dei 65 condannati, 23 saranno comunque riconosciuti appartenere ad associazione mafiosa”.
Ma fu anche caratterizzato da due fatti inquietanti e dolorosi: gli ordini di comparizione su cui si ipotizzava il reato di favoreggiamento nei confronti dell’organizzazione che colpirono alcuni avvocati difensori, e la tragica fine dell’Avvocato Nino D’UVA, stimato penalista del Foro di Messina, assassinato nel suo studio professionale con un colpo di pistola col silenziatore la sera del 6 maggio 1986, a pochi giorni dall’inizio dei lavori processuali cui egli partecipava in qualità di difensore.
L’aula bunker (adesso é sporca e tenuta malissimo n.d.r.) si suddivide in diciassette celle (di cui due con vetri blindati riservate a eventuali pentiti) ciascuna con un discreto numero di posti per i detenuti che si affacciano sull’ampia sala dove si svolgono i processi che comprendono una zona per il pubblico, una per gli imputati a piede libero, una per gli avvocati. Precedono l’ampia sala due stanze, dove stanno i testimoni, mentre dietro vi è la stanza del Presidente, quella del Pubblico Ministero, la camera di Consiglio, la stanza degli Avvocati, la Cancelleria.
L’accesso all’aula avviene con il passaggio obbligato per tutti attraverso il metal- detector installato all’ingresso.
Tutti i guai del Palazzo
Risultati immagini per ufficio procura della repubblica
Basta appena soffermarsi e guardarsi un po’ in giro per rendersi conto che nel Palazzo non tutto fila liscio. Gli addebiti e le critiche sono molti. Davvero troppi se si considerano che vengono da più parti e che si estrinsecano su svariate argomentazioni che vanno dalla non – vivibilità degli spazi super affollati, alle carenze strutturali e degli organici, agli inghippi procedurali. I deficit di ciascun campo inciampano e rotolano con un perverso effetto – ricaduta gli uni sugli altri.
Si lamentano gli avvocati per le lunghe procedure e i tempi dilatati dei processi che sono tanti; la pianta organica è deficitaria rispetto a quella che dovrebbe essere – dice l’avvocato Augusto Mazzu – e ciò fa sì che spesso il magistrato porti in udienza più cause di quante possa realmente eseguirne. Per cui, sulla nuova procedura che ha già al suo interno tempi lunghi, si innestano altri meccanismi perversi che allungano, talvolta anche pericolosamente, l’attività processuale che si svolge, forzosamente in momenti diversi”.
Si lamentano i magistrati che in relazione al volume dei processi sono troppo pochi “la giustizia a Messina è davvero molto sofferente –ammette il Prof. Gaetano Silvestri, componente laico del CSM e docente di diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Ateneo Peloritano -; ed il disastro è imputabile a vari fenomeni tra cui, innanzitutto, la scopertura degli organici dovuta al fatto che molti magistrati si trasferiscono e non è sempre facile rimpiazzarli in tempi rapidi”.
Si lamenta il personale amministrativo e giudiziario non funzionale rispetto alle esigenze.
Si lamentano i cittadini che subiscono la lentezza e le difficoltà del complesso funzionamento della macchina della giustizia.
E una giustizia che arriva in ritardo non è più giustizia. 70.000 processi civili bloccati, una trentina di magistrati mancanti su un organico previsto di circa 170 unità tra Corte di appello, Procura Generale, Tribunale, Procura della Repubblica, Preture sono alcune delle cifre del Palazzo messinese che si commentano da sole.
E in un momento storico in cui la giustizia non è in crisi, si parla, purtroppo, di crisi della giustizia. Perché? Problemi vecchi, problemi nuovi? O non è forse più semplicemente, che i problemi già noti si stanno manifestando in tutta la loro gravità adesso che una nuova aria spira per la giustizia e ora che questi ultimi tempi richiederebbero un efficiente e rapido funzionamento della macchina giudiziaria?
Il rinnovato vigore che sta percorrendo i tribunali di tutta Italia, infatti, serpeggia anche nella città dello stretto.
“Anche a Messina ci sono ormai molte inchieste sulla corruzione politico-amministrativa, tangentopoli tanto per intenderci –dice il Prof. Gaetano Silvestri – che hanno messo in luce come non viviamo in un’isola felice, ma anche nella nostra città c’era un sistema di tangenti che toccava un po’ tutto il settore pubblico e che aveva ingabbiato la vita cittadina in una fitta rete d’illegalità”.
E adesso che anche gli avvisi di garanzia hanno colpito e colpiscono politici messinesi che ricoprono cariche nazionali ( il sottosegretario al Ministero degli Interni Saverio D’Aquino, gli onorevoli Giuseppe Astone e Nicola Capria ne sono leader indiscussi), regionali (quello dell’Assessore alla sanità Nino Galipò è uno degli ultimi), amministratori cittadini e professionisti inquisiti in diverse inchieste e colpiti anche da ordini di custodia cautelare o arresti domiciliari (l’ex Presidente della Regione Vincenzo Leanza, l’ex Presidente della Provincia regionale Giuseppe Naro, il rettore dell’Università prof. Guglielmo Stagno d’Alcontres, l’assessore comunale Pietro Currò, i costruttori Versaci, Oscar Cassiano, Sebastiano Russotti sono alcuni dei nomi eccellenti); mentre si cominciano a celebrare i processi (quello dell’acquisto plurimilionario dei fotocolor di Messina da parte della Provincia, iniziato in questi giorni ne è il portabandiera), adesso, dunque, la macchina della giustizia dovrebbe girare al massimo.
E invece, proprio adesso, tutti i nodi vengono al pettine.
Il palazzo è diventato piccolo. Gli addetti ai lavori operano anche pigiati nelle stanze, in un’orrenda e assolutamente non funzionale promiscuità con macchine, scrivanie e una montagna di fascicoli.
E il nuovo Palazzo, che dovrebbe sorgere accanto al vecchio, di cui tanto si parla, ma di cui non si vede ombra di principio, infossato come sono in un turbinio di progetti fatti, rifatti, proposti, riproposti e mai approvati?
L’Amministrazione comunale di Messina anche in questo è colpevolmente latitante e, come del resto per tante altre cose di questa povera città, vergognosamente inoperosa.
Eppure quando si parla di crisi della giustizia “si denunciano prevalentemente carenze strutturali, carenze di finanziamenti, carenze di magistrati che innegabilmente ci sono – di ce Giovanni Millimaggi dipendente dell’Amministrazione Giudiziaria, segretario provinciale funzione pubblica CGL – mentre di carenze del personale ausiliario della giustizia non si parla, o se ne parla poco, come se il fatto fosse marginale. Mentre invece è fondamentale”.
Perché la macchina giudiziaria non è solo attività giurisdizionale, ma anche attività amministrativa. “Sudditanze gerarchiche, vivibilità del personale, ingresso di nuove forze, di figure addette sostitutive delle attuali arcaiche e inadeguate, sistemazione dell’organico in rapporto ai carichi funzionali di lavoro, sostituzione del vecchio ordinamento per carriere con un nuovo ordinamento per qualifiche funzionali che sopprima la sovrapposizione di funzioni, sono problemi vecchi che ci affliggono da anni, ma che adesso appesantiscono enormemente il funzionamento dell’apparato giudiziario”.
In questo quadro generale già di per sé complicato, s’innestano anche tematiche di ordine procedurale. Oggi che le indagini si sovrappongono a getto continuo le une sulle altre, in nuovo codice ha aggravato la situazione?
“In questo caso – continua Millimaggi – il problema è più generale: nel nostro paese infatti si fanno le grandi riforme e mancano le strutture. Anche se è vero che, pur avendo aggiunto difficoltà, il nuovo codice di procedura penale è più adeguato alla realtà”.
“L’inghippo del nuovo codice – dice l’avvocato Sandro Troja noto penalista messinese – sta nell’interpretazione, sia ben chiaro in buona fede, degli artt. 273/274 e segg. Del codice di procedura penale in tema d’indizio. Va premesso che oggi in base agli indizi sono emesse le ordinanze di custodia cautelare, personali ed interdittiva nella fase delle indagini preliminari. Proprio quest’applicazione della legge ha determinato tutte le carcerazioni e le afflizioni di ordine interdittivo comminate in questo periodo.
Ora il procedimento penale secondo il nuovo rito si distingue in due fasi: indagini preliminari e giudizio; mentre in quest’ultima regolamentazione, il governo, la disciplina sono dati dall’acquisizione della prova, nella prima fase impera l’indizio. E se è pur vero che l’indizio – dice la legge – deve essere grave, siamo comunque sempre in tema di indizio e, sebbene nel suo novero non sia riconducibile il sospetto in quanto non voluto dal legislatore né applicato dalla magistratura, indubbiamente l’indizio è qualcosa di molto, ma molto minore della prova. E se è vero che si dice che l’indizio deve avere riscontro, siamo sempre in campo che definirei non veramente corposo soprattutto quando siamo in presenza di quei meri indizi che possono essere – diciamo in gergo svestiti.
Tutto ciò premesso allora io, come difensore, preferirei che proprio ed anche nella fase delle indagini preliminari si facesse un uso un po’ morigerato e un po’ limitato di questo istituto dell’indizio per l’emissione di quelle misure specialmente afflittive corporalmente che determinano la detenzione carceraria o domiciliare.
Ad onor del vero pur riconoscendo che magistratura di merito, Procura della Repubblica, GIP si adeguano a questo indirizzo dettato dalla Corte di Cassazione, bisogna considerare che se si esasperano le indagini preliminari, insieme alle quali vengono emesse le ordinanze di custodia cautelare, si corre il rischio no di non farli questi processi, ma di farli molto tardi e di farli, fatto questo importantissimo, principalmente in tempi ed in momenti storici diversi”.
Le difficoltà, tante e di vario genere, dunque ci sono.
Ma i tempi sono cambiati, l’operazione “mani pulite” e l’attività dei pool impegnati in tal senso dimostrano che qualcosa di nuovo si muove. Al ruolo sociale importantissimo della giustizia si guarda con occhio e interesse diverso.
E mentre prima il fatto giudiziario, come realtà, restava circoscritto all’interno del Palazzo e l’interesse dell’opinione pubblica non andava al di là dell’attenzione che attiravano i cosiddetti “processi celebri” seguiti con la curiosità tipica dei fatti di cronaca nera o scandalistica soprattutto quando i protagonisti, coinvolti ai vari livelli, erano personaggi noti ( anche a Messina ci sono stati processi che hanno visto ad esempio impegnati, per parte civile o difesa, personalità come l’Avv. Giovanni Leone –ex Presidente della Repubblica -, il Prof. Giacomo Delitala ed il Prof. Salvatore Pugliatti – noti giuristi di fama internazionale -, il Prof. Giuliano Vassalli – ex Ministro della Giustizia), adesso invece persino la nomenclatura giuridica (GIP,GUP, avviso di garanzia, custodia cautelare, arresti domiciliari e via dicendo) è entrata nel linguaggio quotidiano della nostra informazione e dal lavoro dei magistrati aspettiamo la risposta a tanti interrogativi insoluti.
Soprattutto adesso che anche a Messina sono emerse realtà inquietanti: talune insospettabili, altre che sospettavamo, ma nei confronti delle quali rimanevamo inermi. La conferma è venuta dal sostituto procuratore della Repubblica Dott. Marino, componente DDA (direzione distrettuale antimafia) di Messina, che sintetizza autorevolmente la preoccupante situazione della nostra città nel corso di un intervento riportato dal giornale messinese “Quartiere” dello scorso mese di ottobre: “Ovviamente non posso riferire sul contenuto e sulle risultanze delle indagini in corso. Quello però che posso dire, e anticipare, è che in genere sta venendo fuori lo spaccato di una situazione in cui i gruppi malavitosi hanno potuto utilizzare non solo i canali tipici per conseguire ingiusti profitti e per assicurare in futuro i proventi delle loro attività illecite; ma hanno potuto fare in passato affidamento su sponde istituzionali e imprenditoriali della nostra città; o ad attività imprenditoriali svolte da personaggi insospettabili. I gruppi malavitosi hanno potuto conseguire certi risultati attraverso il coinvolgimento di condotte deviate di pubblici ufficiali a qualunque livello. D’altra parte anche il recente episodio del collega Recupero (in carcere in attesa di giudizio con l’accusa di essere stato il mandante del ferimento di un professore universitario reo di non aver promosso una conoscente e sospettato di essere il riferimento giudiziario nei processi malavitosi n.d.r.) è una dimostrazione del livello al quale potevano fare riferimento e sul quale poteva contare la malavita”. Parole che esprimono tutta la gravità di una realtà, Messina, che si immaginava estranea a contaminazioni mafiose e dove invece proliferava una sommersa e fiorente “industria del malaffare”, gestita a vari livelli ed in vari settori, sospettata e subita, ma finora mai denunciata.
In questa nuova dimensione alla quale guardiamo con sollievo e attesa qual è, allora, il futuro del Palazzo?
La speranza in un domani diverso. Con una magistratura alla quale sia dato di essere veramente libera di svolgere pienamente la propria attività giurisdizionale. Con i vari problemi messi sul tappeto e, stavolta, affrontati seriamente con la volontà di trovarvi soluzione.
I segnali ci sono, anche a Messina la pentola si è finalmente scoperchiata.
di Filippo Briguglio
” Parentesi ” AnnoV n.23
Nov.-dic. 1993