IL ROSSO & NERO
Di Filippo Briguglio
Il bello e il brutto, chiari e scuri di Messina.
La città a confronto con se stessa attraverso un mixage di immagini contrastanti: degrado urbano, suggestivi ed inimitabili panorami, vissuto quotidiano con mercati e “malasanità”, scorci di storia (porta Grazia, un particolare del quartiere Tirone, il Monte di Pietà, la Fontana della Pigna, forte Gonzaga, la Badiazza, la chiesa di S. Maria della Grotta sulla riviera del Faro).
Una denuncia dello stato in cui Messina è ridotta, una sollecitazione a reagire all’immobilismo e all’abbandono e ad ambire una città finalmente diversa
Basta! I cittadini onesti dicono basta all’incredibile arroganza degli attuali amministratori di questa città, talmente sfrontati e talmente sfacciati, da volere restare inchiodati a quelle poltrone occupate per lustri, (come se l’occuparle fosse un diritto acquisito e non un dovere nei confronti di quei cittadini che li hanno eletti), a dispetto di quella alternanza da più parti invocata che rimane, però, una utopica parola, baluardo di democrazia.
Uomini che non temono nulla, né gli avvisi di garanzia che hanno cominciato a scuotere questa sonnolenta città, né la sospensione dalle funzioni, né l’arresto.
Né tantomeno il giudizio severo della gente che non li vuole più, e che con l’insofferenza di chi ha subito per anni i loro giochi di potere auspica l’unico possibile segnale per un avvio di rinnovamento: che abbiano il coraggio di andarsene. Eppure ciò non accade. Perché? Quali sono le motivazioni che li inducono a restare, a non volere “mollare l’osso”?
Certamente non quella fariseica volontà di recuperare balbettata con le parole d’occasione usate nei pentimenti formali di un clima prenatalizio (il sindaco Bonsignore docet!) accompagnate da pubbliche “lacrime di coccodrillo””.
Né la giustificazione che rimanere al potere, stando così le cose, sia ancora espressione della volontà dei cittadini.
La risposta, allora, non è forse da ricercarsi nel fatto che la risoluzione dei problemi che da anni gravano irrisolti sulla nostra città, (occupazione, problemi economici, sociali ed ecologici) porrebbe invece fine a quella perversa fabbrica delle illusioni, oscuro marchingegno innescato per preservare quel clientelismo atto a mantenere inalterate le sacche di un potere già acquisito?
Difficile mollare a questo punto; piuttosto sembra che vi sia, invece, proprio una determinata malefica volontà di lasciare tutto nel caos, in una globale situazione incancrenitasi a tal punto da averne perso il controllo e che, di sicuro, non giova alla città.
Povera Messina! Così apparentemente invitante per la sua splendida bellezza che si appiattisce e muore contro il malessere dell’attuale società: dove il degrado supera la bellezza, la prepotenza è un’arma per affermare i propri diritti, la prevaricazione un segno della tendenza al dispregio dei valori umani.
Una città vittima dell’abuso di chiunque, avendo un grande o anche un piccolo potere, politici, amministratori o semplicemente professionisti imprenditori o medici ospedalieri che siano (la vergogna delle Case Arcobaleno e la “malasanità” del reparto di cardiochirurgia dell’ospedale Piemonte parlano per tutti), collusi tra loro o isolati, lo ha gestito intanto per sé anteponendo il proprio tornaconto personale a quello della collettività per la quale avrebbe, invece, dovuto agire in seguito al mandato da essa ricevuto.
Una città strozzata da una gestione della cosa pubblica talmente cattiva che persino fatti di ordinaria amministrazione, quali ad esempio assicurare il regolare espletamento della nettezza urbana, diventano un fatto di straordinaria amministrazione per il quale il profluvio di nauseabonde parole si mescola al lezzo che soffoca ogni angolo di Messina e periferia.
Una città che così com’è non interessa nessuno.
Non i cittadini avviliti mortificati in un degrado che non sembra mai toccare il fondo, né i visitatori (quei pochi che ci resta vedere gironzolare come anime in pena) che gli ammiccanti fotocolor strombazzati a suon di centinaia di milioni dalla “ricca” provincia regionale di Messina vorrebbero attirare in questa città sempre più inospitale.
Una città che ha il primato di essere la città a più alto inquinamento acustico d’Italia, una città talmente “civile” da avere pensato il normale scorrimento del traffico pesante in pieno centro urbano, talmente “artistica” da potersi permettere di tenere impacchettati per mesi quei pochi monumenti che ne costituivano il vanto (che dire della fontana del Montorsoli di Piazza duomo e della facciata della Cattedrale in fase di restauro infinito e dell’orologio del Campanile che ha perso, non si sa più da quanto, la sua naturale funzione?), talmente “disciplinata” da consentire la circolazione selvaggia nelle sue strade dissestate per l’incuria verso una ordinaria manutenzione o per la improvvisazione di lavori stradali iniziati e mai finiti, talmente “educata” da non volere creare adeguate strutture sportive e ricreative, luoghi di incontro per i giovani (costretti a bivaccare in mezzo alla strada per poter stare insieme in posti che non siano le ormai desuete mura domestiche o le discoteche rigorosamente fuori città), talmente “fiera di sé” da essere una patetica cenerentola quando, magari in occasione delle “visite ufficiali” si tira a lucido per la festa (chi non ricorda, tanto per fare un esempio, le rigogliose fioriere approntate per la visita del Papa oppure il trionfo di fiori di una delle facciate del Municipio per l’incontro con Raissa Gorbaciova?).
Ma tutto ciò è quel quotidiano fin troppo tristemente risaputo.
Una città stridula che non si preoccupa più di salvare almeno la faccia come invece le imporrebbe quel ruolo di “porta della Sicilia” che riveste, così come non si preoccupano di farlo quegli amministratori e ex-amministratori inquisiti che tentano di appellarsi al “fumus persecutionis” ormai di moda. Una città sopraffatta dallo sfascio sempre più difficilmente recuperabile.
Insomma una città “troppo” disordinata, “troppo” indisciplinata, “troppo” caotica, “troppo” sporca, “troppo” apatica, “troppo” indifferente, “troppo” pigra, “troppo” amorfa come l’avevamo già definita; una città “troppo” sola.
Ma di chi è la colpa se siamo giunti a questo punto?
Solo degli amministratori che hanno sguazzato nei loro torbidi giochi di potere o non anche di noi tutti che abbiamo permesso, tra brontolii e omertà, che le cose si spingessero sino a questo punto?
Vale a dire: chi è più responsabile, il corrotto o il corruttore? Ed è sempre come il riproporsi l’atavico dilemma se sia nato prima l’uovo o la gallina.
Eppure nonostante tutto, anche se non può essere tutto, non si riesce a non soffermarsi sui tanti irresistibili panorami che il fascinoso scenario dello Stretto crea con i suoi scorci e le sue naturali suggestioni, o su quei frammenti della sua storia antica che questa “povera” Messina soffoca, mai trattenendosi dal seppellirli, espropria, mai soffermandosi a valorizzarli, mescolati a quegli aspetti, che pur non avendo nulla di particolarmente attraente, anzi!, sono tuttavia uno spaccato di vita nella città.
Ecco allora i mercati. In questo senso Messina non vanta una vera e propria tradizione.
Sino alla seconda guerra mondiale sorgeva nella zona del porto la “Pescheria” con i grandi padiglioni di ghisa che ospitavano non solo il mercato del pesce, “pescheria delle più ricche ed interessanti a vedersi – scriveva lo storico Gustavo Chiesi – per la grande varietà del pesce di cui è ricco lo Stretto, per la rarità e le curiosità ittiologiche…” ma anche ogni altra specie di generi alimentari calmierati e controllati dagli uffici dell’annona inclusi i prodotti dell’agricoltura che provenivano dai dintorni. Nel dopoguerra la Pescheria fu sostituita dal Mercato Alimentare Generale sito in via La Farina, ma poi scomparso.
Oggi i mercati cittadini più frequentai sono quello di S. Paolino (alle Due Vie), quello di Sant’Orsola (prima sito nella piazza di Casa Pia), il Vascone, il mercato coperto del Muricello.
Tutti accomunati da una caratteristica: la sporcizia che, ala fine della giornata, rimane padrona incontrastata della strada laddove poco prima faceva bella mostra di sé, tra buoni affari e piccole fregature, la merce strillata dalle urla stridule dei venditori.
Girovagando per la città si incontrano tanti pezzi di storia dimenticati.
La porta Grazia, retaggio dell’antica Cittadella, monumento superstite in quella antica “pittoresca piazza di casa pia” dove vi era – come scriveva Gustavo chiesi – “uno dei mercati popolari messinesi. Il mercato che ogni mattina si tiene è particolarmente consacrato alla verdura, alla frutta, di cui l’agro messinese è in ogni stagione ricchissimo e precoce produttore; ma non mancano i banchi e i carri, da cui si smercia e si negozia di un po’ di tutto, dalle chincaglierie alle cotonnate, dai ferravecchi al ciarpame più lucido – raccolto dai rigattieri e dagli straccivendoli – al pesce…”
Un palazzotto d’epoca, ormai cadente, in via di demolizione lungo la via Cesare Battisti.
Il vecchio, ormai fatiscente, quartiere del Tirone “un tempo amenissimo sito, ornato di vaghi e graziosi giardini”, sconnessamente degradato da un abbandono continuo e perpetrato nel tempo.
Ed ancora non lontano dal centro cittadino Forte Gonzaga, realizzato intorno al 1540, su progetto di Antonio Ferramolino, dagli Spagnoli come edificio destinato, insieme alle altre numerose fortificazioni, alla difesa della città.
E l’antica Chiesa di S. Maria della Valle o della Scala, lungo la via Palermo in prossimità di Scala, meglio nota come Badiazza,antico monastero di monache benedettine. “Fu fondato dal conte Ruggiero, – scrive Gustavo chiesi – non appena ebbe in suo potere Messina; e fu tra il secolo XII ed il XIV dei più famosi in Sicilia, per i privilegi e le rendite di cui godeva. Ne accrebbe poi la fama una Madonna giuntavi nel 1167, in modo –dicevasi – miracoloso, attraverso mille peripezie; rubata da certi marinai messinesi in Oriente, ove era stata dipinta dieci secoli prima da S. Luca; Madonna che ora conservasi nella chiesa della Scala, in città. Intorno a questa Madonna della Scala (cosiddetta da una scaletta che l’immagine ha dipinta in mano)…” narra la tradizione un episodio. La nave ove l’immagine viaggiava, giunta nel nostro porto, ultimate le operazioni mercantili, al momento di ripartire non poté staccarsi dalla banchina nonostante i ripetuti tentativi eseguiti dai marinai. Ritenendo che ciò fosse imputabile all’atto sacrilego compiuto, gli stessi marinai riferirono l’accaduto a Federico II di Svevia che ordinò di portare l’effigie trafugata in processione come segno di penitenza. Sbarcato il quadro, la nave miracolosamente lasciò gli ormeggi, mentre l’immagine sacra fu posta su di un carro che si decise di fare trainare da buoi lasciati senza guida. Il carro, lasciato al semplice istinto degli animali, attraversò la città e, sempre seguito da una folla di fedeli, imboccò il greto del torrente Giostra risalendo sino al monastero di S. Maria della Valle dove si fermò. Da qui l’altro nome, S. Maria della scala che derivò al convento.
La seconda parte della storia della Badiazza ha versioni diverse: secondo alcuni il monastero, (come del resto tutti monasteri basiliani attestati nelle valli dei torrenti), ebbero motivazioni economiche assicurando, in virtù della sua posizione geografica di dominio della via che attraverso i colli di S. Rizzo portava alla piana di Milazzo, una funzione di controllo su tutte le merci.
Secondo altri il monastero di S. Maria della Valle, luogo di ritiro delle monache benedettine, essendo anche stato denominato S. Maria della Scala, diede il nome di Scala Ritiro al villaggio sorto intorno ad esso, e fu abitato dalle suore fino a quando esse non furono costrette ad abbandonarlo per le continue inondazioni causate dalle piane del torrente ai margini del cui greto esso era stato edificato. Ancora secondo il Chiesi, invece, “al convento di S. Maria della Scala è tradizione che le regole non fossero né severe né rigorosamente osservate; e le pie monachelle che v’albergavano non si peritavano di farne l’asilo degli amori di Pietro d’Aragona con Matilde Alaimo Scaletta, allorchè liberata Messina dall’assedio di Carlo d’Angiò vennero con grande segreto in questa città alla cui difesa il marito di Matilde, Alaimo Scaletta da Patti, tanto aveva cooperato. Scoppiata la peste del 1347, le monache di S. Maria della Scala o della Valle, come fu detta l’Abbadiazza, ritiraronsi in città e non vennero ad abitare l’antico convento se non durante la stagione estiva ed alla spicciolata – cosa che diede origine a scandali ed abusi.- Le severità introdotte dal Concilio di Trento negli ordini monastici, costrinsero le suore di S. Maria della Scala ad abbandonare quella loro piacevole residenza estiva…”.
Eccola dunque Messina, inconfondibile nei suoi tramonti e nelle sue notti di magia, “povera” città abbandonata dagli uomini, “ricca” protagonista inimitabile di meraviglie ed incanti che la natura benigna disegna abbondantemente per lei.
Eccola Messina, gettata come un bel corpo inanime vestito di stracci, dove, a differenza di quello che diceva il filosofo Kant, “il bello” purtroppo non “ è il simbolo del bene morale”.
Il rosso e il nero: vale a dire due facce di una stessa medaglia, il bello ed il brutto, chiari e scuri di una città che non può morire così, una sollecitazione a reagire all’immobilismo e all’abbandono e ad ambire quella città diversa, coscienza di pochi e fantasia di molti.
Filippo Briguglio
“Parentesi” Anno V n.21 aprile- maggio 1993