di Filiippo Briguglio
Con commozione ho accettato l’invito a ricordare, in questa sede, Mario Rappazzo. E per questo ringrazio la signora Iolanda Antoci, vedova del professor Rappazzo, che, ben conoscendo l’affetto che mi legava a suo marito, ha voluto che fossi io a ricordare in questa occasione la figura dell’uomo, dell’insegnante, del giornalista e dello scrittore, d’intesa con l’editore Armando Siciliano, che ne ha curato la pubblicazione postuma della raccolta poetica “Geometrie eterne”, una collezione di poesie che vanno dal 1969 al 1980.
Parlare di chi non c’è più non è mai facile, perché ci si espone sempre al rischio di incorrere in toni celebrativi di stereotipata commemorazione.
Ecco perché, per dare un mio contributo al ricordo della sua figura, sono andato a rispolverare nella memoria le sensazioni e i ricordi della grande umanità che percepivo durante i nostri incontri, ed i preziosi insegnamenti che ho ricevuto da lui, ai quali ho cercato di rispondere con un deferente e riconoscente rapporto di stima e di profonda amicizia. Per scegliere le parole che avrei detto, ho fatto scorrere davanti a me tanti vivissimi ricordi, che si sono tradotti in un commosso percorso nel passato.
Io ho avuto l’onore di essere stato allievo di Mario Rappazzo, pur se per un brevissimo periodo, quando, ancora ragazzino incerto, dopo la scuola media, non avevo ben chiaro quale dovesse essere il percorso di studi tra quelli che avrei potuto intraprendere, e scelsi, incoraggiato da mio padre, di iscrivermi all’Istituto Tecnico Commerciale “A. M. Jaci” di Messina, dove il professor Rappazzo era titolare della cattedra di italiano e storia. Ma ben presto, seppur dispiaciuto di perdere un docente di lettere del suo calibro, decisi di cambiare indirizzo di studi, trasferendomi presso l’Istituto Magistrale “Ainis”, sempre nella stessa città. Ma l’insegnamento mi fu lasciato da Mario Rappazzo si tradusse definitivamente in un interesse per la letteratura e con la narrativa, di cui diventai da allora assiduo lettore. In quegli anni egli aveva appena pubblicato un romanzo dal titolo “Kio il mamertino”, nel quale aveva già trasfuso una delle sue peculiarità, cioè quello “scrupolo di scrittore che ha sorretto l’autore” di cui fa cenno Domenico Cicciò, giornalista del quotidiano messinese La Gazzetta del Sud e attento operatore culturale del giornale che, nella prefazione al libro, scrisse: “Un libro, pensato e scritto per la scuola, … nel quale al pregio di una ricostruzione storicamente fondata, si aggiunge il gusto di una narrazione che saprà trasmettere stimoli di ricerca e di curiosità a quei giovani lettori ai quali Mario Rappazzo ha inteso sostanzialmente rivolgersi”.
Un libro di cui ancora mi sovvengono i toni pacati ma decisi attraverso la trama e lo scorrere del racconto, impressi chiaramente nella mia memoria, anche se non ho più avuto occasione di rileggerlo.
Nel tempo, io ho incontrato in tante occasioni Mario Rappazzo, tra l’altro, compagno d’armi di mio padre. Ma il tratto saliente che me lo fa ricordare con grandissimo affetto è quella sua forte personalità innanzitutto di uomo, quindi di uomo di cultura, il cui pensiero era sempre in continua evoluzione.
Il vero scrive Giorgio Barberi Squarotti, nella prefazione a “Geometrie eterne”, quando sostiene che questa raccolta poetica “si propone immediatamente, con la sua ampiezza e la sua varietà di temi e di modi, come una summa di arte e di vita, ben scandita nelle sezioni in cui si articola fra meditazione e passione……” … e ancora: “…le sue origini di pensiero e di giudizio sono molto più inquiete e complesse che un discorso di ormai troppo ripetuta e risaputa negazione dello stato, in cui viviamo, di esasperata e disperata ricerca di piaceri e conforto nelle cose, dal momento che troppo insopportabile sarebbe il silenzio dell’anima distrutta e negata”. E più avanti, “…la poesia di Rappazzo va, di conseguenza, letta nel complesso della sua estrinsecazione, che è anche varietà di modi e di forme all’interno di una costanza e di una coerenza di pensiero e di idee che ne rilevano costantemente l’alto impegno morale e concettuale”.
Tutti noi abbiamo ben presente l’innegabile merito di Rappazzo di essere stato un valido punto di riferimento per oltre un ventennio (se consideriamo solo il periodo della sua massima attività) nella vita e per la vita culturale di Messina, di quello che culturalmente rappresentò, ma sopratutto di come lo rappresentò: con un tratto ed una incisività tali da lasciare un vuoto tanto grande che difficilmente, io credo, potrà essere colmato. Non si può dimenticare l’unanimità di consensi e di partecipazione che Mario Rappazzo ottenne in tanti anni di laboriosa e fervida attività. Poeta, giornalista, narratore di grande sensibilità, con la mente sempre rivolta, fino all’ultimo, nella direzione di fare, e fare bene, per dare il suo personale contributo “allo sviluppo culturale”, anche fuori dai confini cittadini, fuori da quell’ambiente culturale di Messina che lo vide, tra l’altro, infaticabile organizzatore del premio nazionale “Terza pagina”, intitolato al giornalista e amico Domenico Cicciò, premio che per diversi anni sotto la sua egida rappresentò un importante ed ambito appuntamento culturale apprezzato a livello nazionale.
Ideò e fondò, nel 1981, la rivista “Prometeo”, magistralmente diretta per un decennio con Vincenzo Mascaro, della quale egli fu, però, la vera anima. Una lunga, entusiasta, prolifera militanza, dunque, nel mondo letterario a tutti i livelli. Una militanza accorta, attenta e sensibile, della quale io stesso ho beneficiato con l’occasione offertami di pubblicare sulla rivista “Prometeo” i miei due saggi, uno su Matilde Serao ed un secondo su Corrado Alvaro, da lui attentamente letti e positivamente valutati. Una militanza, la sua, non sempre facile, le cui amarezze ho io stesso condiviso negli ultimi tempi, quando Mario Rappazzo sfogava con me i suoi timori, le sue ansie di non potere riuscire a fare fronte nel tempo ai gravosi impegni, anche di carattere economico, che la regolare pubblicazione trimestrale della rivista “Prometeo” comportava.
Anche lui, infatti, fu negli ultimi tempi vittima di quella distratta attenzione o, meglio, costante disattenzione delle istituzioni nel sostenere economicamente delle valide iniziative culturali, nonostante fossero già in vita. Fu proprio a proposito di quest’argomento che, trovandomi una
mattina a conversare in casa sua, gli suggerii di scaricarsi del gravoso onere di gestione sino ad allora personalmente sopportato (e gli addetti ai lavori sanno quanto esso sia complesso nella sua totalità: dalla raccolta del materiale all’impaginazione, alla veste grafica, alla stampa, alla distribuzione, alla raccolta di fondi, alla sottoscrizione di abbonamenti, agli adempimenti contabili e
fiscali). Gli suggerii di avvalersi di un editore, che facesse capo, ad esempio, ad un’associazione culturale, per gestire tutti gli aspetti editoriali della rivista “Prometeo”.
Non ritornammo più sull’argomento, ma a distanza di qualche tempo m’invitò a divenire socio fondatore di un’Associazione Culturale, intitolata a una poetessa scomparsa, Maria Celeste Celi, sua amica, con l’intento di continuare a promuovere tutta quella serie d’iniziative sino ad allora condotte solo dalla sua inesauribile voglia di non fermarsi nonostante tutte le difficoltà. E questa sua infaticabile, ferrea volontà di essere presente, ma sempre con rettitudine, di non essere disposto a cedere, costituisce il testamento spirituale che Rappazzo ci ha lasciato e che la signora Iolanda, sua moglie, ha raccolto con amore e con desiderio di perpetuare, senza speculazioni o distorsioni, il ricordo sincero del compagno della sua vita, scrittore attento e uomo integro e lungimirante.
Mi fa piacere ricordare Mario Rappazzo e ricordarne a tutti voi la profondità, l’attualità, la compiutezza ricorsiva1 del pensiero senza età. Poco prima di morire, egli mi consegnò un suo articolo da pubblicare sulla rivista “Parentesi”, da me diretta, alla quale egli più di una volta mi onorò di collaborare. Ho pubblicato l’articolo postumo, sul numero dodici del marzo 1991, un mese circa dopo la sua morte.
E ancora quelle parole risuonano intensamente vere ora più che mai, in questo particolare momento storico di grande disorientamento, così difficile, in cui i valori stessi della vita sono costantemente messi in discussione. Ed i suoi pensieri suonano per noi come un monito, in un’aura di vera profezia. «Certo il nostro pianeta non è mai stato un eldorado» scrive Rappazzo. Infatti, mai è mancato lo spettro di quell’ipocrisia di facciata mirante a nascondere gli aspetti deteriori di coloro che hanno retto le sorti dei popoli. Probabilmente per questo, oggi, più che mai, impera la voglia di strappare la foglia di fico che copre tutte le impudicizie all’interno (ma anche all’esterno) dei palazzi. Si vuol dire e sostenere che ciò sia un pregio delle grandi democrazie, così profondamente progredite dai tempi della Rivoluzione francese, così a lungo represse. Incitando alla voglia di far scendere dai piedistalli così tanti “papaveri” e cedendo alla bramosia incalzante, da parte di chi ne possiede i mezzi, di strappare la maschera che copre il volto dei potenti giornalisti di grandi testate, scrittori di alto livello sfidano le collere più terribili, mettono a nudo tremende verità. Il popolo dei lettori divora quegli scritti, se non altro per comportarsi come il cane carducciano, che “morde i sassi che non può scagliare”.
Mi piace concludere questo breve, sentito excursus sul maestro, sull’amico, sullo scrittore attento alle voci più intime dell’animo umano, fervente sostenitore della validità della cultura e dell’importanza della “scrittura”, con una riflessione. Essa nasce ancora una volta proprio dalle sue stesse parole, quasi un messaggio per noi, amanti della carta stampata. È un invito a non lasciarci sopraffare dalla perversa fretta tipica dei nostri tempi, dai ritmi stressanti della quotidianità che ci imbrigliano e sembrano non lasciarci più molto spazio per quegli spunti di indagine e di riflessione che arricchiscono lo spirito, “l’anima distrutta e negata il cui silenzio sarebbe insopportabile” di cui, come dianzi ho citato, ha scritto Giorgio Barberi Squarotti. “E la cultura?” scrive ancora Rappazzo nell’articolo che ho prima citato. “Una volta la cultura faceva tremare, ma adesso che più che alla scrittura essa si affida alle immagini e più che al libro al look televisivo, questa cultura che si definisce post-moderna, non fa tremare nessuno”.
Ma la verità é una sola e irrefutabile; che la scrittura non è venuta né verrà mai meno al suo compito, il suo campo è ancora vastissimo e mai come adesso, io penso, è esistita civiltà più “scritta” e più “scrivente”, e che anche il video, pur essendo il luogo dove corrono le immagini, è pure il luogo dove si pronunciano parole: parole che pesano, che scatenano, parole che divengono materia scritta, scrittura. Ogni polemica, quindi, in tal senso è inutile e, più che a sostenere tesi aberranti, possa essere rivolta a sollevare questioni inquietanti, a sostenere argomenti capaci di correggere i costumi, di raddrizzare menti contorte, di pacificare cervelli inquieti, ritornando a certi principi di primato intellettuale e umanistico e denunciando il male ovunque esso si annidi”. Ecco chi era Mario Rappazzo: un uomo senza tempo, un gentiluomo vecchio stampo protagonista dei tempi, oltre il tempo.
Filippo Briguglio
Messina 09/03/1993