Associazione Culturale Parentesi

Fondata a Messina nel 1989. Periodico illustrato bimestrale di politica, economia, cultura e attualità diretto da Filippo Briguglio. Reg. Trib di Messina 18/02/1989. Iscritto nel Registro Nazionale della Stampa con n°3127 Legge 5881 n° 416.

“Parentesi” Le nostre inchieste – le nostre interviste – Viaggio all’interno di un ex manicomio

In quale posizione si colloca il “Mandalari” alla luce delle numerose polemiche sugli ospedali psichiatrici? Come si conciliano le sue strutture, rimaste per la maggior parte quelle dell’epoca di costruzione, con l’applicazione della famigerata legge 180? Chi sono e come vivono i ricoverati? Come operano gli addetti ai lavori? Come si inserisce nel territorio l’unico reparto operante in applicazione della legge 180?

di Filippo Briguglio

La Sanità nell’occhio del ciclone, per Messina, non è più un evento eccezionale. O per un motivo o per un altro, da qualche tempo il cittadino viene bombardato da notizie negative nel settore della salute pubblica con una tale frequenza che la coscienza collettiva, superata la fase dello stupore e dell’indignazione e rassegnata al solito epilogo del “molto rumore per nulla”, ripiomba nell’oblio che caratterizza l’ordinaria indifferenza.
Proprio il clamore, ormai sopito, suscitato dal recente caso di cronaca cittadina: la morte del giovane degente del Mandalari ghigliottinato nel sonno dalla spalliera del letto (disgrazia accidentale, secondo il personale sanitario, conseguenza dell’essere stato immobilizzato, secondo il racconto di alcuni ricoverati), e le indagini giudiziarie tuttora in corso hanno destato il nostro interesse verso l’Ospedale Psichiatrico, un’istituzione in città, poiché è una delle più vecchie strutture ospedaliere messinesi.

La nota storica, che a parte proponiamo, dello scrittore Silvio Papalia Jerace, discendente del fondatore Lorenzo Mandalari, ben introduce alla nostra visita.
Una premessa ci sembra opportuna.

La tanto discussa legge 180 contempla una nuova concezione dell’assistenza psichiatrica: il superamento e la chiusura degli ospedali psichiatrici in favore della realizzazione di strutture, cosiddette alternative, inserite nel territorio, per far sì che il paziente, laddove si sia manifestata una situazione di crisi o di disagio, venga ad essere assistito ed eventualmente ricoverato senza, quindi, penalizzare la famiglia del malato.
«Da una concezione custodialistica tradizionale dell’assistenza psichiatrica in termini ospedalocentrici (un centinaio di ospedali distribuiti tra isole e resto d’Italia dove venivano ricoverati tutti o quasi i pazienti con problemi psichiatrici)» chiarisce il prof. Spadaro, direttore sanitario del Mandalari, «si passa ad una visione di deospedalizzazione assolutamente decentrata e spostata nel territorio. Non più ospedale psichiatrico, quindi, ma servizio socio-sanitario facente parte di un sistema di servizi sanitari che riguardano la tutela della salute mentale, dove, accanto agli ambulatori, ai servizi domiciliari, ai centri diurni e così via, dovrebbe esserci anche una struttura idonea al ricovero nei casi di patologie croniche che possono sempre verificarsi. Strutture, queste, che la legge 180 ha indicato, senza però specificare come realizzarle per pervenire concretamente al superamento dell’ospedale psichiatrico».
In seguito all’introduzione di questa legge, lungamente si è dibattuto e si dibatte l’annoso problema sanitario delle infermità mentali.
In quale posizione si colloca l’Ospedale Mandalari alla luce delle numerose polemiche sugli ospedali psichiatrici in genere?
Anche il Mandalari non rimane immune da critiche. Più volte su di esso si è accentrata l’attenzione della società, «intendendo per “società”», come dice il prof. Emanuele Motta, già direttore dell’Ospedale dal 1952 al 1981, «soprattutto i politici, la stampa e tutti quelli che hanno la possibilità o il compito di rivolgersi al pubblico, i quali hanno bisogno dell’oggetto Ospedale Psichiatrico, tanto che, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo, perché su di esso focalizzano la loro analisi per dirottare l’attenzione e non parlare dei propri errori e delle proprie responsabilità. Magari i guai e i difetti dell’assistenza sanitaria fossero costituiti solo dalla situazione degli ospedali psichiatrici!»
Solo una specie di capro espiatorio, dunque? Una legge, la 180, che vede nel processo abilitativo e riabilitativo un momento vitale ed importante, di fatto si scontra con strutture che sono quelle che Mandalari aveva costruito nel 1887; quindi, assolutamente inadeguate per applicare i nuovi criteri di gestione del malato mentale. Cosa fare per rimediare ad un siffatto stato di cose?
«Demolire tutto e creare nuove strutture adeguate» lamenta un’infermiera, «non limitarsi alle chiacchiere. Le attuali strutture, infatti, sono fatiscenti, le attrezzature obsolete e vecchie».
Ma in alternativa a questa radicale soluzione cosa si sta facendo?
Per ovviare agli innumerevoli inconvenienti, qualcosa già si è fatto, come la ristrutturazione di    alcuni reparti e la distribuzione di pasti preconfezionati, adottata per via dello stato disastroso delle cucine. Ma molto ancora resta da fare, anche se è già prevista la ristrutturazione di altri tre reparti (il reparto epilettici con finanziamento regionale, l’ex reparto infermeria e l’ex cosiddetto reparto bambini) in piccoli moduli di non più di trenta posti in sostituzione delle attuali divisioni che ospitano sino ad ottanta ricoverati.
Come operano gli addetti ai lavori in simili condizioni?
Gli operatori dell’Ospedale Psichiatrico (medici, infermieri, assistenti sociali) ci sono parsi consapevoli dei limiti, dei disagi, delle quotidiane difficoltà con le quali sono ormai abituati a convivere, di cosa si fa e cosa si potrebbe e dovrebbe fare, dei punti di forza e di quelli di debolezza.
In una struttura che non viene opportunamente, ma soprattutto tempestivamente, rinnovata, tutto diventa complicato: una realtà difficile, dunque, continuamente denunciata, nella quale un po’ di rassegnazione (non tale, tuttavia, da indurre al totale immobilismo) serpeggia laddove si sa che, per l’attuazione dei programmi, occorre fare i conti con le pastoie degli ingranaggi burocratici e della lentezza degli interventi (quando ve ne sono) degli organi preposti al funzionamento delle strutture.
«Purtroppo non abbiamo potuto realizzare tutto quello che avremmo voluto» ci dice il Prof. Spadaro. «Infatti, nessuno di noi sarebbe così sciocco da pensare che l’ospedale debba continuare oggi ad essere strutturato in senso tradizionale, quando, alle soglie del 2000, si parla di abilitazione, di riabilitazione, sia pure nei limiti in cui è possibile intervenire, poiché solo in minima parte possiamo abilitare o riabilitare l’insufficiente mentale. Dobbiamo però certamente fare in modo che le persone vivano nella maniera più dignitosa e più civile possibile».
Ma quanti sono e come vivono i ricoverati del Mandalari? Quale la loro tipologia?
Dai 1570 malati, o forse di più, degli anni ’50 si è passati ai circa 450 di oggi, distribuiti tra i reparti ospedalieri e le due comunità terapeutiche. I reparti sono aperti ed i ricoverati vivono con la libertà consentita dai livelli di autonomia di ciascuno. «I mezzi di contenzione tradizionalmente intesi» dice un’assistente sociale «sono stati totalmente aboliti, sebbene persista una mentalità manicomiale protettiva e custodialistica in base alla quale i pazienti vanno comunque tenuti sotto controllo per paura che possa succedere qualcosa; poiché va detto che, con l’introduzione degli psicofarmaci, vi sono tutta una serie di presidi farmacologici che consentono di sedare il paziente».
«I nostri attuali ospiti» precisa il prof. Spadaro «per oltre il 50% appartengono ad una fascia di tipologia psichiatrica seria o grave che non consente alcuna deospedalizzazione (anche se il nostro sforzo di deospedalizzare ove e fin dove è possibile risale già agli anni ’60) se non in ambienti particolarmente attrezzati di tipo sanitario, che pur non siano ospedali. Questo a causa di vari problemi legati ad ogni tipologia: di ordine fisico, fisiologico, neurologico, tipici dei soggetti con fatti psichiatrici cronici, e di ordine geriatrico, con i consequenziali fattori di deterioramento». «L’ospedale psichiatrico moderno, e questo è quello che nessuno vuole intendere» ribadisce il prof. Motta, «non raccoglie malati di mente in senso stretto (quelli che si vedono nei film o si trovano nei romanzi, tanto per intenderci). I malati di mente che c’erano e ci sono adesso negli ospedali psichiatrici sono malati psichici con grossi fenomeni di malattie a tipo deficitario; il classico schizofrenico o il classico depresso ci sono, ma costituiscono una percentuale minima, anche per un fatto: il progresso della psichiatria, ed in particolare della terapia, agisce bene o relativamente bene sulla categoria dei malati in senso stretto, non sugli altri. Gli altri si accumulano, non escono, non migliorano, non vengono dimessi. Quindi, possiamo dire che la tipologia, in fondo, non cambia. Vi è però una differenza, e questo fenomeno sfugge alla stragrande maggioranza degli osservatori e dei detrattori: il fenomeno dell’invecchiamento. E invecchiano soggetti già deteriorati dalla malattia, che non era stato possibile dimettere a causa delle loro condizioni. I malati che ci sono adesso, quindi, e che c’erano prima, costituiscono un gruppo di soggetti intrattabili dal punto di vista della terapia, incapaci di relazionalità sociali, di lavoro, con scarsissime possibilità di quel cosiddetto inserimento sociale di cui tutti si riempiono la bocca e la testa: essi sono una massa intrattabile, una specie di palude-stagno che nessuno può prosciugare».
La legge 180 ha cambiato molte cose. «In astratto, i manicomi sono superati, in quanto non sono strutture che dovrebbero giuridicamente esistere» chiarisce il dott. Armellini. «Ma la legge va calata nella realtà e interpretata intelligentemente dagli uomini. Essa è stata il frutto di un compromesso culturale ed essendo tale, i nodi sono venuti al pettine».
Ad esempio, cosa prevede la legge per quelle famiglie che hanno malati di mente in casa?
«La gestione familiare di un malato di mente è un problema nel quale sovente ci imbattiamo» risponde il dott. Armellini. «Ed è un problema reale, cui il legislatore ha dato una risposta, sia pure teorica: sarebbe compito del servizio di tutela di salute mentale (un’equipe socio-sanitaria formata da un medico, un assistente sociale, uno psicologo, un infermiere) garantire nei limiti del possibile un’assistenza domiciliare. Ma nella nostra provincia questo tipo di assistenza non decollato per moltissimi motivi, inclusi i più banali (ad esempio, manca l’autovettura che dovrebbe servire all’equipe per effettuare assistenza a domicilio)».
Uno dei cambiamenti introdotti dalla 180 riguarda il criterio di ricovero: oggi entra nella cosiddetta struttura comunitaria, opportunamente strutturata, solo chi esprime personalmente la propria volontà di ricovero. E chi non è in grado di decidere autonomamente? La legge prevede in questi casi il trattamento obbligatorio in quei servizi psichiatrici di diagnosi e cura, inseriti nell’ospedale generale, all’interno dei quali si provvede al controllo, al trattamento e all’assistenza del paziente acuto ricoverato, in situazione di emergenza, per volontà altrui.
Oggi al Mandalari ci sono due categorie di ricoverati: la prima è quella di coloro che sono “dentro” persino sin da bambini, come il paziente di 67 anni ricoverato da quando aveva 10 anni «perché ero discolo», ci confida. Per i soggetti come lui, e ce ne sono altri, l’ospedale è come una casa: alcuni, soli al mondo, non saprebbero neanche dove andare, pur se potessero; altri, invece, sostengono di preferire restare qui perché «non c’è collaborazione in famiglia». «Un tempo l’Ospedale Psichiatrico di Messina» ricorda il prof. Motta «non chiudeva la porta a nessuno per nessun motivo. Certo, venivano ricoverati anche bambini, perché, se non li ricoveravamo noi, chi li ricoverava?»
La seconda categoria di pazienti appartiene a quella dei ricoverati volontari. Per loro da circa quattro anni è stato creato un idoneo servizio, secondo i dettami della legge 180, di cui è primario responsabile il dott. Armellini, coadiuvato da due assistenti; con loro collaborano tre infermieri per ciascuno dei quattro turni giornalieri e quattro ausiliari per le pulizie, che si alternano la mattina e il pomeriggio. Come è strutturato questo reparto che attualmente è il più funzionale del Mandalari?
«Il nostro è un reparto aperto a tutti» risponde il dott. Armellini, «cui possono accedere i malati che hanno problemi all’esterno. Accogliamo tutti coloro che presentano problemi psichici senza porci, almeno all’inizio, un problema diagnostico. Requisito indispensabile è che, anche se indirizzatici dai vari servizi operanti nel territorio della provincia di Messina, essi chiedano volontariamente di essere ricoverati. Il reparto, con stanze a due letti, ospita al massimo diciotto ricoverati ed è sempre pieno, tanto che siamo costretti a rifiutare malati perché i posti sono quello che sono né, d’altronde, ampliare la struttura sarebbe efficiente dal punto di vista gestionale e da quello operativo».
Come vengono gestiti i ricoverati secondo le direttive della nuova legge sul trattamento delle infermità mentali?
«Il reparto garantisce un’assistenza senza dubbio efficace» continua il dott. Armellini, «che risponde ai compiti cui esso è preposto. Con diciotto malati si opera bene nel senso della socializzazione: le porte sono aperte, anche perché malati pericolosi non ce ne sono più e lo stesso concetto di pericolosità è stato rivisitato. I ricoverati passeggiano per i viali e tra loro si vanno stabilendo affinità elettive; mancano strutture ricreative vere e proprie, ma i pazienti giocano a carte, svolgono qualche piccola attività, sovente qualcuno esce con l’assistente sociale».
Ma accanto alle cose, poche, che funzionano, molte sono quelle che non vanno.
Per quello che ci è stato dato di vedere (non ci è stato consentito di entrare in alcuni reparti), i pazienti della vecchia struttura ospedaliera vivono nel reparto tradizionale così come è stato concepito agli inizi del secolo: camerate con dormitori comuni di 30, 60, 70 posti letto, reparti formati senza alcun criterio particolare, laddove una volta c’era una suddivisione (agitati, tranquilli etc.). In taluni reparti manca il riscaldamento a causa di carenze della centrale termica; in altri i muri scrostati, la vetustà delle poche suppellettili, il tanfo irriducibile di alcune zone costituiscono l’abituale, squallido scenario nel quale si consuma l’esistenza di individui sfortunati, taluni dei quali sono ormai ridotti a larve umane.
Il reparto donne è particolarmente degradato: vi sono circa sessanta degenti ammucchiate senza distinzioni in un unico camerone, con una elevata incidenza di patologie invalidanti, con servizi igienici insufficienti, in una struttura dove è impossibile qualsiasi progetto concreto di riabilitazione, «con una situazione globale di assoluta inadeguatezza, inutile nasconderlo» denuncia il prof. Spadaro. «Un reparto da sessanta posti letto, che raccoglie portatrici delle patologie più diverse, con problemi mentali e fisiologici come l’incontinenza (ogni mattina vanno cambiate lenzuola e persino materassi) è ingestibile, e gli infermieri fanno miracoli».
E il personale parasanitario cosa ne pensa? Quattro infermieri per sessanta malati, la figura del caposala (importantissimo trait d’union tra malato, medico e infermiere) abolita dalla legge, sono dati che parlano da soli. Gli infermieri appaiono rassegnati, sfiduciati.
«È facile dire questo, dire quell’altro; gli ammalati vanno tutelati, guardati, se sono troppi non ci si riesce, anche se si vorrebbe; e sono dei grandi bambinoni, persino da tenere per mano in alcuni casi».
Quali sono le proposte?
«Il numero dei malati andrebbe ridotto, le strutture andrebbero migliorate qualitativamente per migliorare la vita dei malati e la nostra».
Quali rapporti intercorrono tra infermiere e malato? Abbiamo chiesto a un degente se gli infermieri si comportano male.
«È il loro mestiere» è stata la risposta.
Ma al di là di questa affermazione, della quale abbiamo riso, «non si può pretendere» osserva il prof. Motta, «né sarebbe positivo dal punto di vista clinico-riabilitativo disporre di un infermiere per ogni ammalato, perché questa sarebbe un’oppressione, anche a prescindere dal fatto poi che l’infermiere non può prevedere tutti gli eventi che possono verificarsi. Può accadere, però, di vedere un malato andare a braccetto con un infermiere».
Nella struttura, oltre alla suora, preziosa collaboratrice che svolge svariate mansioni anche di ordine pratico (come acquistare ciò che serve a ciascun malato), è inserita l’assistente sociale, nella misura di una ogni due reparti. Quali sono i rapporti con i malati e quali sono i suoi compiti?
«Vivo la vita del reparto, ascolto gli infermieri, parlo con i pazienti. I miei compiti vanno dal provvedere al disbrigo di faccende pratiche, che riguardano questioni amministrative, organizzative, burocratiche, all’operare nella sfera delle dinamiche relazionali, curando gli aspetti sociali della vita del malato, le problematiche e i rapporti con la famiglia, ove esista. Da operatrice interna, devo operare all’interno perché cambino le cose».
Ma le cose cambiano, a volte?
«I processi sono molto lunghi ed il sistema è molto complesso. Va tutto malissimo: non è solo un discorso di fatiscenza e di sopravvivenza di una struttura. È anche una questione di mentalità che non cambia, soprattutto ai vertici, USL, amministratori, dirigenza, dove non c’è la reale volontà di fare, dove non c’è una programmazione per obiettivi in conformità a progetti di lavoro. Ci sono tanti interessi e tante situazioni che vanno al di là della volontà o della preparazione del singolo: possono esserci ottimi medici, ottimi infermieri, ottimi operatori che, alla fine, entrano in collisione con delle scelte operate al vertice che non tengono conto delle conseguenze».
Una disamina razionale, questa, agghiacciante per le sue implicazioni, cruda e veritiera, che sintetizza uno stato di cose senza dubbio assai grave, dove la teoria, elaborata alla scrivania, e la pratica della vita reale non si incontrano. «Individuare cosa si potrebbe fare e di chi sono le colpe delle carenze è impresa estremamente ardua» sostiene il dott. Spadaro.
E noi non vogliamo in questa sede lanciare un grido d’accusa o raccogliere un mea culpa.

di Filippo Briguglio

“Parentesi”Anno IV n.17 Gennaio/Febbraio/Marzo 1992

(2700)

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