Associazione Culturale Parentesi

Fondata a Messina nel 1989.- “Parentesi” Rivista bimestrale di politica, economia, cultura e attualità diretto da Filippo Briguglio. Reg. Trib di Messina 18/02/1989. Iscritto nel Registro Nazionale della Stampa con n°3127 Legge 5881 n° 416.

DOMENICO MAROLI’, pittore MESSINESE

AUTORE DI ICONE E DI OSCENITÀ DELL’ETÀ BAROCCA

di Fortunato Pergolizzi

Nella Messina barocca, alla vigilia della rivolta contro la Spagna di Carlo II, operava il pittore Domenico Marolì, maestro eccellente nel dipingere pale d’altare ma anche, assecondando il gusto della borghesia del tempo, compositore di licenziosi quadretti d’alcova con Venere protagonista di complicati giuochi amorosi.
Tali dipinti, che gli procuravano lauti guadagni, riflettevano i valori timbrici che si possono riscontrare nelle tele che ancora oggi sono custodite presso il Museo Regionale di Messina, reliquario della città perduta, e mostrano l’estro elegante che caratterizza lo stile della pienezza espressiva acquisita dall’artista, da quando, diciannovenne, iniziava la sua attività nella bottega del Barbalonga, seguace del Domenichino.
Ebbe come compagni di apprendistato lo Scilla e Onofrio Gabrieli, che gli furono camerati in quanto militarono nelle schiere dei “malvizzi” durante la rivolta, che aveva inizio il 13 aprile del 1672, con l’inconsulta reazione dello stratigoto dell’Hojo, il quale faceva bruciare dalla plebe affamata, le case dei senatori Carlo Lagaña, alla Giudecca e di don Paolo Moleti, Pietro Marino, Carlo De Gregorio e Giuseppe Balsamo.
Un incendio che si doveva alimentare sino al 1678. quando con la pace di Nimega, la Francia di Luigi XIV, abbandonava alla vendetta dei boia del regime spagnolo, il viceré de Bonavides e il sanguinario Quintana, la città di Messina, decretandone una inarrestabile decadenza, ancora oggi palpabile. Il Marolì, concluso l’apprendistato, intuiva i limiti di una esperienza che oscillava tra la formazione di bottega e l’ammirazione per il Caravaggio, per cui decideva di partire dalla sua città, per studiare direttamente le opere dei grandi maestri rinascimentali con l’intento di superare gli angusti limiti provinciali, alla ricerca della personale identità artistica.
Concludeva il suo peregrinare per l’Italia, a Venezia e successivamente, nel 1660, a Bologna, dove maturavano le scelte stilistiche che gli erano più congeniali, rivolte principalmente ai ritmi mediati della pittura del Veronese, opulenta e descrittiva e all’aulico naturalismo poetico del Bassano, che lo sentiva affine e ne divenne emulo, al punto da suscitare l’ammirazione del Boschini.
Il soggiorno bolognese dev’essere stato proficuo per il Marolì se gli procurava la gelosia di mestiere dei pittori locali, i cui comportamenti ostili lo indussero a riprendere la via di ritorno, verso la non dimenticata Messina, raggiunta dopo una serie di peripezie, poiché la nave, sulla quale si era imbarcato a Genova con la moglie e il figlio, durante la traversata, veniva catturata dai barbareschi e subiva, il pittore con la famiglia, la schiavitù nella città di Tunisi.
La fortuna gli fu benigna, però quando il principe d’Aragona, pretore di Palermo, lo liberava dai debiti contratti per pagarsi il riscatto e così, scongiurato il pericolo di finire in galera per morosità, Marolì poteva rientrare nella sua Messina, non senza essersi sdebitato col pretore, al quale donava il ritratto in grande uniforme.
Finalmente poteva riprendere il lavoro e mostrare come la sua qualità di pittore si era evoluta ed era lontana dalla tela dipinta in gioventù, la “Natività”, ancora oggi esposta nella chiesa di Santa Maria della Grotta, sulla riviera del Faro. In questo dipinto, infatti, le scansioni cromatiche e compositive si mostrano acerbe e si accomunano nella caduta dei mezzi espressivi e del tessuto prospettico, dove si accentuano certe carenze naturalistiche, quando inseriva, come marchio di bottega, alcuni puttini roteanti in alto, indulgendo al compiacimento elegiaco devozionale, divaricando di fatto, la sua “Natività”, da quella, dipinta dal Caravaggio, che ne costituiva il modello. La mano del maestro, infine, emancipata dagli stilemi giovanili, si mostrava anche nel dipinto che gli venne commissionato per il convento di San Paolo con il tema del martirio di San Placido e dei suoi fratelli, tradotti davanti al carnefice. Il Marolì, del quadro, ne fece un racconto della esperienza vissuta come vittima degli infedeli, autoritraendosi nei panni del martire Placido e il figlio Pietro lo presentava implorante ai piedi del feroce Mamuka, i cui tratti somatici erano quelli del Bey di Tunisi che lo tenne prigioniero, mentre la moglie Flavia, prestava le sembianze alla santa Flavia, in un contesto illustrativo del tormento patito dai cinque fratelli martiri, ai quali i messinesi dedicarono memorabili feste.
Ancora il Marolì, proseguiva nel l’esprimere auree iconografie, realizzando il telero che rappresenta San Pietro d’Alcantara mentre levita, in estasi, tra un volteggiare di angeli e di putti, in una atmosfera tendente ad essere sospesa tra il sogno e la realtà. Riaffermava cioè i contenuti espressivi delle pale d’altare concepite come macchine devozionali, dove si evidenziano soluzioni cromatiche e chiaroscurali intensamente poetiche e sintatticamente misurate, evitando gli eccessi delle circonvoluzioni della teatralità barocca.
Una tensione creativa, quindi, un costante ritmo compositivo riflesso nel dipinto che rievoca la vicenda biblica di “Loth e le figlie”, quel Loth padre degli Ammoniti e dei Moabiti, nati, secondo il racconto della “Genesi” dal rapporto incestuoso con le figlie che lo salvavano dall’incendio di Sodoma. Nella tela, l’elemento umano, subordina, più che nelle altre opere, lo spazio e Loth lo pone al centro, contro un anfratto roccioso, oggetto di attenzione delle fighe che lo seducono, dato che il vecchio è preda di Bacco, muovendosi in gruppo, su una cadenza di forme oblique dalle espressioni intensamente allusive.
Gli effetti pittorici qui si fanno più vibratili, con un crescendo di valori tonali sempre più trasparenti che ne ritmano le modulazioni plastiche, attraverso una pigmentazione di puro colore, raggrumato in tocchi brevi, nei contrappunti di maggiore luminosità.
Dove la roccia poi, finiva, si allargava una visione della città di Sodoma, lontana, tra fiamme e bagliori e, solitaria, appariva nella campagna, Sara, la moglie di Loth, che si trasformava in statua di sale, sedimento di dolore e di vergogna. Come se nel dipinto ci fosse il segno premonitore del destino di Messina che doveva bruciare, non per ancestrali malefici biblici, ma per l’indegno comportamento degli spagnoli e al Marolì fu risparmiato il dolore di assistere alla disfatta di Messina, per la morte sopravvenuta alle ferite riportate dal pittore, durante lo scontro con gli spagnoli che sbarcavano alla Scaletta nel 1676.
Fu un sogno di libertà che i messinesi inseguirono invano per secoli, poiché in tutti i regimi che si sono succeduti, l’ombra della Spagna, con la sua Pax di “dividere” e “rubare”, doveva sopravvivere sino allo “spagnolismo” odierno e può essere attuale il libello, che i siciliani rivolgevano ai viceré, che recitava: “… Mi vidi / mi ridi / mi ‘mbivi e non mi pruvidi …” che tradotto dice: “… Mi vieni a vedere, mi sorridi, mi succhi le vene e non fai nessun provvedimento per me.

Fortunato Pergolizzi
Parentesi anno III n.16 novembre-dicembre 1991

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