Panarea, regina delle isole
Un piccolo arcipelago incorona questo rigoglioso e verde fazzoletto di terra, trionfo di suggestivi tesori naturali: coste dalle piccole spiagge e dalle rocce aguzze, piccoli scogli, splendidi panorami, un mare limpido e fondali lussureggianti.
di Filippo Briguglio
L’inizio del viaggio da Messina verso Panarea è promettente.
Accoccolati nella zona esterna dell’aliscafo osserviamo la sua scia bianca e spumosa che sembra inghiottire e frantumare i ritmi frenetici della nostra routine. Man mano che il viaggio procede i pensieri di ogni giorno rotolano, l’uno dopo l’altro, nel mare.
La mente è già abbastanza libera quando, d’improvviso, appaiono le prime isole Eolie di questo percorso: Strombolicchio, immoto guardiano, e Stromboli, maestosa isola del vulcano che sembra scolpito da gigantesche mani i cui solchi si indovinano sulle pendici. Il villaggio, lucente nella fusione di contrasti tra il candore delle case e la nerissima sabbia lavica è dominato dalla bianchissima chiesa sottolineata da una palma che le svetta accanto. Tutt’intorno la vegetazione afferma prepotentemente la sua esistenza in questa montana accesa, sonnacchiosa e fumante, che a lungo lo sguardo avvolge mentre le ultime bianche case di Ginostra solitaria ammiccano in lontananza.
Gli occhi sono ancora abbagliati che già vengono calamitati dal susseguirsi di quegli isolotti disabitati e scogliere (Basiluzzo, Spinazzola, Dattilo, i Panarelli, Lisca Bianca, Bottaro, Lisca Nera, e più in là le Formiche, nera manciata di piccoli scogli) che sembrano essere stati seminati casualmente da un ignoto e fantasioso Pollicino come a segnare, marine briciole, la distanza tra Stromboli e Panarea.
Ed eccola, finalmente, Panarea: piccolo scrigno di impareggiabili tesori! All’arrivo essa appare timida, riservata: un’atmosfera serena, distensiva, soave accoglie che sbarca. Yachts e motoscafi, che si alternano alle barche locali, dondolano indolenti cullati dall’impercettibile sciabordio di lievissime onde contro il molo. In fondo all’approdo un paio di boutique, un bar, i terminal di aliscafi e navi incorniciano l’andirivieni rilassato dei “vacanzieri” e l’attesa vigile degli indigeni, improvvisati autisti di piazza dell’unico mezzo di trasporto via terra, la moto – ape. A destra un po’ in alto ed emergente dal verde la vecchia Chiesa dell’Assunta. A sinistra la terrazza-bar dell’Hotel Lisca Bianca, strategicamente affacciata sullo splendido panorama di Stromboli e dell’arcipelago degli isolotti, istituzione tra i punti d’incontri e di appuntamenti.
Una piccola salita introduce al centro del villaggio, l’abitato di S. Pietro. Da questo momento si schiude, per il visitatore, un incantato e suggestivo “paese delle meraviglie”. Le stradine strette salgono, scendono, si intrufolano, si intersecano, girano e rigirano nel dedalo delle basse case rigorosamente bianche, avvolte dalle buganvillee, dagli ibiscus, immerse nel verde degli alberi mediterranei nel quale si dischiudono e si rincorrono ora un cortiletto con la sua tettoia di canne, ora un patio sottolineato da rudimentali, aeree colonne. Di quando in quando si affacciano negozi e boutique con il loro bagaglio di variopinti oggetti: originali, curiosi, eccentrici, normali, raffinati; alcuni disposti in una forma apparentemente “casual” ricercata con raffinata cura, altri esposti più tradizionalmente. Ce n’è per tutti i gusti e per quasi tutte le tasche, privilegiando le più fornite, dal momento che anche Panarea non si sottrae alla regola che sembra disciplinare l’ospitalità “a caro prezzo” delle isole Eolie. Nulla sfugge: un acquiescente calmiere fissato sul raddoppio regolamenta l’acquisto dei beni primari, mercato libero per quelli voluttuari.
Girovagare qua e là ha il suo fascino in tutte le ore.
Di notte nel buio delle viuzze interrotto solo dal chiarore delle stelle, delle torce e di qualche lieve luce filtrata dalle case, negli scogli che accennano nell’oscurità i loro contorni, nel mare nero e misterioso.
Di giorno quando l’abbigliamento “isolano”, che sa di libertà, è quasi d’obbligo: costume, cappello, pareo, scarpe di tutti i tipi, meglio ancora se a piedi nudi, secondo il “look vigente”, per vip che si sentono anonimi e per anonimi che si sentono “in”.
Non è difficile incontrare personaggi: capita anche a noi.
Ci imbattiamo in Lucio Dalla, prima sulla terrazza –bar dove si lascia fotografare senza reticenze con chi glielo chieda, poi sulla sua “barca” da dove, affabile e gioviale, annuisce con semplicità alla richiesta invitandoci a bordo per offrirsi al nostro obiettivo; ed in Rosalinda Celentano, splendidi occhi verdi e testa rapata che, più divisticamente, declina gentilmente il nostro invito.
Panarea non è solo meta dei “ricchi”, rintanati nelle loro esclusivissime ville con angolo di mare privato, o ancora dei “nuovi ricchi” che spesso ostentano l’acquisito benessere con atteggiamenti provocatori, o di un turismo oggi più massificato che nei mesi clou dell’estate arriva a stravolgere l’immagine.
Panarea è un’isola per tutti, giovani e meno giovani, pigri e meno pigri (non tanto per i bambini non essendo dotata di infrastrutture).
Si può raggiungere la spiaggia a piedi oppure in barca oppure con le moto-api, attrezzate con sedili e talvolta tettoie, che scarrozzano per le strettissime strade costruite a loro misura, rasentando muri e strapiombi, al “modico” prezzo di lire 5.000/7.500 a persona (trattabili per chi ci riesce) per un tragitto di poco più di dieci minuti.
Chi sceglie di andare a piedi più lentamente assapora tutti gli incanti che Panarea sciorina, a poco a poco, lungo il cammino.
Uscendo dall’abitato la strada prosegue passando dietro l’omonima chiesa di S. Pietro dal cui sagrato si può ammirare il bel panorama che si apre sugli isolotti. Quindi s’inoltra nella frazione di Drauto e continua tra salite e discese che passano in mezzo alle case anch’esse bianche ed esaltate dai colori dei fiori di buganvillee e dagli ibiscus, da alberi di limoni, di fichi, di frutta, tra ulivi secolari e fichi d’india che slanciano verso il cielo terso le grandi foglie cariche di frutti o dei suoi fiori, tra rosmarino, capperi e cespugli di cardi e di rovi, tra terrazzamenti ricoperti di macchia mediterranea e vaste zone pianeggianti.
Gli scorci e i panorami sono semplicemente fantastici, i profumi inebrianti e puri come il mare talmente limpido che dall’alto è possibile vedere i fondali pieni di stupefacenti miriadi di pesci e di flora lussureggiante.
La bellezza del paesaggio è un continuo crescendo: a sinistra il mare intensamente azzurro, solcato di quando in quando dalle imbarcazioni, anche tante, ma mai stonate o offensive coi loro rumori; a destra una piccola verde collina. Dopo circa una mezz’oretta la strada scende alla Caletta di Zimmari (detta la spiaggetta dove è possibile fare il bagno in un mare tiepido dal fondale sabbioso, che si protrae per un buon tratto, mentre minuscoli pesciolini guizzano tra le gambe e ammirare, come ci è capitato, un gabbiano reale che passeggia sulla riva incurante della confusione, lentamente entra in acqua e poi spicca il volo.
Alla fine della spiaggetta, percorso un breve tratto lungo la battigia, la strada riprende e sale, quasi tutta a gradini, sino al promontorio (diversamente non raggiungibile) dove sorge il Villaggio Preistorico di Capo Milazzese (risalente alla media età del bronzo) qui ubicato certamente per la difesa essendo inaccessibili dal mare le pareti verticali e del quale si ammirano i resti delle 23 capanne ovali e una rettangolare che lo componevano.
L’esplosione di bellezza è tale da mozzare il fiato. Lo sguardo è calamitato, catturato, ipnotizzato da questo suggestivo trionfo della natura: quel poco di stanchezza che si può avere per la strada percorsa svanisce, la meta ripaga ampiamente.
Una lingua di terra unisce la Stradella retrostante al villaggio adagiato sul promontorio che si dischiude, come un grande uccello le sue ali, a proteggere due baie: la baia del morto, così chiamata perché si dice che dall’alto della rupe venivano buttati in mare i morti; a destra la bellissima Cala Junco, accentuata da un solitario scoglio a forma di aquila che sembra vegliarla e racchiusa da mirabili pareti di lava raffreddata.
Anche la parte occidentale dell’isola è bella con frazione Ditella pullulante di bianche case dai giardini fioriti e contrada Palisi che offre una bella vista sulla costa a picco e sullo scoglio detto la nave. Questa parte, più di quella orientale dove l’origine vulcanica è nascosta dalla vegetazione esuberante, testimonia degli sprofondamenti causati dai fenomeni vulcanici che hanno demolito parte dell’isola. Qui, infatti, sono ben visibili, soprattutto dall’alto, la conca della Calcara con le fumarole, dalla temperatura che raggiunge i 100 gradi, disseminate sulla spiaggia, ultimo segno di attività vulcanica, ed i piccoli “vulcani” con orli verde pallido o violaceo, tracce di sedimenti naturali.
Se dall’interno l’immagine che Panarea offre è già di per sé sontuosa, dal mare la sua bellezza è ancor più straordinaria e regale. Il nostro giro in barca comincia dal molo di S. Pietro.
Ci accompagnano Antonio l’ormeggiatore, detto copertone, ed il figlio undicenne Salvatore, ragazzino in gamba con un bellissimo sguardo già adulto, più maturo della sua età, bravissimo al timone che il padre, fiducioso, gli affida vigilando discretamente.
La barca scivola leggera e lenta: sotto i nostri occhi incantati sfilano la ghiaiosa spiaggia di Ditella, punta della Brigghia con le sue rocce acute come guglie di cui una quasi isolata in mare, la spiaggia della Calcara, punta di Palisi, la grotta del Tabacco, lo scoglio detto la nave, simile ad una nave con le vele spiegate, la rupe della Punta Scritta sulla quale la tradizione vuole vi fosse un’iscrizione saracena, lo scoglio La Loca a gradini con formazioni colonnari di lava grigia, punta Lena, il ripido scoglio detto Brigantino presso la riva di Cala Junco e la punta Milazzese che chiude la Cala, la caletta dei Zimmari, la punta del Torrione, grotta Palomba.
Lasciamo l’isola e ci dirigiamo verso il piccolo arcipelago che le fa da corona. Il mare è sempre più azzurro e di una limpidezza quasi sconvolgente, il sole è cocente, Salvatore procede spedito con la perizia di un vecchio lupo di mare.
Ecco l’imponente Basiluzzo, splendido scoglio di roccia vetrosa vulcanica. Assomiglia con le sue guglie svettanti ad un arcigno castello o ad una austera cattedrale. Lungo il suo perimetro si rincorrono in armoniosa miscellanea coste a picco, ricche di profonde anse e pittoresche insenature e strapiombi: lo scalo, detto Scalo du Calavrisi (scalo del calabrese) formato da una piccola insenatura con una spiaggetta di ciottoli tra le alti rupi, dal quale si diparte un sentiero che porta sino in cima dove casette ruderi e cisterne simboleggiano l’antica abitabilità sulla sommità di questo scoglio con capperi, rosmarino, cardi abbondanti che si mescolano all’austerità delle rocce; la Cala Bianca e la Cala bianca piccola, così detta per la tinta chiara delle rocce, la punta del Monaco santo, la grotta del Pascià, la punta del Perciato, la grotta del Carbone, la punta di Levante.
Dattilo, che caratteristiche guglie fronteggiano, si innalza dal mare come una piramide punteggiata da caverne. Fino al primo trentennio del secolo, vi venivano portate le pecore al pascolo. Oggi, tra capperi e lentisco, vi si rifugiano i gabbiani.
Vicinissimi ad esso i Panarelli, cinque piccoli scogli di pungente e durissima lava, emergenti dalle acque, i quali delimitano un paradiso in miniatura per gli amanti di pesca subacquea.
Più in là, adagiato nel mare come una grossa lucertola, Lisca Bianca, caratteristico nel suo colore biancastro retaggio di fumarole acide ormai estinte, dimora di una colonia di conigli selvatici e Bottaro nelle cui vicinanze, quando il mare è in bonaccia, l’acqua sembra ribollire per il singolare fenomeno delle “quaddari”, caldaie, fumarole sottomarine. Ad essi fa da contrasto Lisca Nera per il colore marrone scuro delle sue rocce non molto alte abitate solo dagli uccelli.
Mentre torniamo a riva, paghi di tanta bellezza, ci domandiamo come sia potuto accadere che questo angolo di paradiso, trionfo della natura sia stato denominato dai Greci Euonymos (infausta), successivamente, Panaraia, cioè tutta sconnessa, quindi Panaria, infine Panarea.
Panarea, la più piccola delle Eolie con la sua superficie di 3,4 Kmq, la meno elevata (il punto più alto, Pizzo del Corvo, misura m. 421), la più vecchia geologicamente, abitata sin dal neolitico superiore (come testimoniano i ritrovamenti della Calcara, di Piano Quartara, punta Peppemaria, Drauto, Punta Milazzese), ospite di falchi della regina e gabbiani reali che nidificano negli anfratti inaccessibili delle sue coste, è l’isola del fascino tutto esclusivo in ogni momento: nel letargo e nell’abbandono dell’inverno, nel risveglio della primavera quando si comincia a rifare la “facciata” per la nuova stagione, avvolta dal caldo torrido dei giorni d’estate, splendente in un nitido settembre dai vividi colori, golosa rievocatrice in un cesto di genuini sapori dimenticati di grassi fichi neri maturati dal sole.
Panarea: la piccola grande regina delle isole capace di suscitare, attraverso l’espressione esaltante della forza della natura, piacevoli sensazioni di abbandono del vissuto quotidiano, liberando la mente e trasportandola, dolcemente naufraga, nei suoi infiniti angoli di paradiso.
Filippo Briguglio
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Anno III n.14
“Parentesi” Luglio agosto 1991