Associazione Culturale Parentesi

Fondata a Messina nel 1989.- “Parentesi” Rivista bimestrale di politica, economia, cultura e attualità diretto da Filippo Briguglio. Reg. Trib di Messina 18/02/1989. Iscritto nel Registro Nazionale della Stampa con n°3127 Legge 5881 n° 416.

Arte e Storia: la caratteristica forma della chiesa del villaggio Pace a Messina

SANTA MARIA DELLA GROTTA, SULLA RIVIERA DEL FARO

di  Fortunato Pergolizzi

Sulla riviera del Faro, a circa due miglia dalla città di Messina, sorge maestoso,
un tempio ricostruito dopo il terremoto del 1908. Sul modello di quello antico, eretto tra il 1622/39. La chiesa è dedicata a Maria Santissima della Grotta (o delle Grazie) ma anticamente, un quadro pervenuto in quella zona per circostanze ritenute miracolose, veniva collocato nella grotta che si apriva sulla spiaggia, successivamente inglobata in una cappelletta. In realtà il luogo, accoglieva in età pagana, il simulacro di Diana cacciatrice, alla quale veniva eretto, in epoca greco-romana, un tempio a pianta centrale e, proprio tra quei ruderi, sull’antico crepidoma. sorgeva, prima la cappella cristiana e nell’età barocca, la chiesa, così come viene ammirata, costruita su progetto del messinese Simone Gullì per la committenza di Emanuele Filiberto di Savoia, viceré di Sicilia.
Le grotte sono state, presso le diverse etnie, i luoghi deputati ad accogliere, quando furono abbandonate come rifugio dall’uomo, totem e simulacri destinati a mimare il mistero delle manifestazioni della natura, esorcizzate perché non inferissero nella precarietà di una esistenza vissuta, già drammaticamente, in un ambiente ostile. Nell’oscuro antro, l’istinto umano, portava a sentire l’alito misterioso delle energie nascoste e venivano considerate le cavità, come una sorta di grembo della madre terra, da dove tutto aveva origine. Ma era anche, la tetra caverna, l’anticamera degli inferi, il mondo sotterraneo che accoglieva una delle “tre zone cosmiche, la discesa al mondo dei morti” (A Seppilli) e solo agli dei era concesso ritornare alla luce, secondo il mito di Poseidone, riferito alla pioggia assorbita dalla terra, per rivelarsi alle sorgenti per donare il prezioso elemento, fecondatore della terra arsa dal sole, personificato da Semole, la madre di Bacco, al quale, nell’antica Alessandria era dedicata una spelonca dalle volte tinte di rosso.

Anche nei pressi di Messina si apriva un antro destinato al culto di Diana cacciatrice e. nell’era cristiana alla venerazione della Madonna, insistendo da quelle parti, i ruderi di un tempio pagano, (presumibilmente costruito davanti alla grotta, in epoca greco-romana), sulle cui rovine si doveva innalzare una sontuosa fabbrica, sorta nell’età barocca, ma ricostruita dopo il terremoto del 1908, con le stesse caratteristiche architettoniche, incastonata la chiesa, nella riviera del Faro, a circa due miglia dalla città, come punto focale dell’incantevole paesaggio ammirato da chi naviga nello Stretto. Ma prima del 1639, il culto della Madonna, veniva praticato in una cappelleria sorta a ridosso della cavità e alla quale si legarono alcuni fatti ritenuti miracolosi, per cui il luogo si consacrava come il centro oracolare carico di carisma che gli derivava anche dal mito pagano che riteneva il mare delle sirene, il segno di un dio potente che manifestava il suo dominio, dividendo le terre.
La vicenda che legava l’immagine della Madonna allo speco, ebbe origine da un avvenimento che è comune ad altri luoghi di culto Mariano, come la Badiazza o Tindari, poiché la volontà della madre di Cristo, si manifestava con determinati segni, nello scegliere il sito eletto a sua dimora terrena, un posto sacro assegnato ad accogliere la devozione della gente.

Accadeva infatti che un veliero “levantino”, non riusciva a superare la rèma dello Stretto, come se una forza immane lo inchiodasse in mezzo al mare, impedendone il procedere verso il Faro. E poiché a bordo si trovava un quadro della Madonna chissà dove trafugato, i marinai infedeli ebbero sentore che fosse tale presenza la causa delle loro tribolazioni, per cui decidevano di trasferire il simulacro a terra, tra il popolo che poteva onorarla, e la sistemavano nella cavità che si apriva nelle sperone di roccia che si protendeva sulla riva, cosicché la nave riprendeva il suo cammino Aveva così inizio, il culto di Santa Maria della Grotta, che dava anche il nome alla località, dove i fedeli accorrevano richiamati dai prodigi che si verificavano in quella spiaggia, sino a quando, nel 1300, un frate, certo Giovanni Paolo Poeta, dei Predicatori, elevava la cappella che presto fu colmata di doni dai credenti, beni amministrati dall’intraprendente frate.
Ma, tra ceri rubati da ladri che non riuscivano a portare lontano e cani che ritrovavano otri di olio, per alimentare la lampada votiva, scavando nella rena, come testimoniava Francesco La Face, venne pure una inondazione che spazzava il tempietto e, del quadro miracoloso, si persero le tracce. II culto della Madonna della Grotta dovette languire sino a quando veniva costruita la chiesa imponente, per volere del viceré Emanuele Filiberto di Savoia, che la faceva progettare con un casino di caccia adiacente, essendo quelle contrade predilette dalla nobiltà messinese, poiché le colline, che oggi vediamo tignose o seppellite dal cemento, erano ubertose e ricche di selvaggina, cosi come il mare antistante, era propizio alla pesca, specie alla caccia del pescespada, praticata con cimento anche dai viceré.
L’incarico per costruire il nuovo tempo, venne affidato all’architetto messinese Simone Gullì, nel 1622, il quale per dare maggiore spazio all’edificio, che si fondava sul crepidoma del tempio di Diana, a pianta centrale, faceva sbancare altre parti del costone roccioso, per incentrare la cella del monoptero, dal diametro di 50 palmi (essendo il palmo messinese di m. 0,258, circa 13 metri) e coronarla con la cupola alta il doppio della base, inglobato l’insieme, da un portico, nello stile, di ascendenza serliana, con le colonne abbinate ai pilastri, dai capitelli dorico-toscani, sui quali si impostano, alternati alle trabeazioni, le arcate che ne costituiscono l’inconfondibile sagoma tra le quinte dello scenario dello Stretto.
Seguiva il Gullì nel profilo architettonico, il ritmo compositivo suggerito dai trattati di architettura studiati durante il suo soggiorno romano, uno stile scevro di sinuosità barocche, piuttosto legato all’anima classicheggiante seguita dagli architetti che si riferivano agli stilemi di Carlo Maderno, l’autore della facciata di San Pietro.

Per la morte del viceré sabaudo, avvenuta in Palermo, il 31 agosto del 1624, la fabbrica di Santa Maria della Grotta però, subiva una battuta d’arresto durata ben quindici anni, e i lavori dovevano riprendere grazie all’intervento del viceré Francesco de Mello di Braganza, il quale, transitando nello Stretto, notava il tempio incompiuto e non perdeva tempo a far riaprire il cantiere, nel rispetto della volontà del primo committente, e si donava al culto nel 1639, il maestoso edificio sacro, ornato ancora oggi, da un dipinto di Domenico Marolì, “l’Adorazione dei Pastori”.

La caratteristica sagoma della chiesa, scompariva col terremoto del 1908, dopo aver resistito alle ingiurie dei sismi del 1693 e del 1783, alle mareggiate e alla dissacrante opera degli spagnoli che trasformavano il luogo di culto in fortilizio, quando sbarcavano in quelle spiaggie, il 27 marzo del 1676.

Ma fu ricostruito nello stesso luogo e nella stessa forma su progetto dell’ingegnere Guido Viola, redatto nel 1924, col parere favorevole della Commissione incaricata dalla Direzione delle Belle Arti di Palermo, composta dai professori Ernesto Basile, Fichera e Valenti, e al corpo circolare della struttura, si aggiungeva un’aula tangente la cella, sbancando ulteriormente la roccia e venne realizzato il nuovo tempio, con i fondi raccolti dal comitato promotore, capeggiato dal parroco don Vincenzo Gentile. Ritornava così, a dominare il profilo della costa, la mole cara agli abitanti della riviera e ai naviganti che si accingono, superati i réfoli del Faro, ad affrontare le insidie del mare aperto.

È il tempio, la testimonianza della volontà di rinascita che ha sempre animato i messinesi, a dispetto delle calamità naturali e delle aspre dominazioni subite, ricordate dai canti popolari che rievocavano come nell’età barocca “… lu santu patri nni livau la missa / lu Re conza la furca a li parrini / Sicilia è fatta carni di sasizza / cca c’è la liggi di li saracini …! (Anche oggi, anche oggi).

Fortunato Pergolizzi

©”Parentesi” anno II n.11 dicembre 1990

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