Nella scrittura poetica di Tilde Rocco il registro linguistico, quasi di regola lucido e fluente, è il felice supporto che, già in limine, coinvolge la curiosità del più smaliziato lettore di poesia e finisce con l’impegnarlo nella lettera sino in fondo.
Il che puntualmente accade pure con questo suo nuovo e recente libro di versi – “’La consistenza del sogno” (Ed. del Leone. Venezia 1989.
pp. 105), – in cui i tanti materiali di per sé non semplici, rispetto ad altri offerti in precedenza, agevolmente si strutturano, senza rilevabili sconvolgimenti formali, in un contesto armoniosamente unitario proprio grazie a quell’ariosità espressiva, che ne é filtro naturale e qualificante.
Se così non fosse, d’altra parte, non sarebbe impresa facile trovare li per lì la chiave per penetrare all’interno del labirinto memoriale, dall’autrice giocato tutto su un incastro di riferimenti velati, di precisazioni mozzate, di riapparizioni sfumate m un’intesa umbratile rincorsa con un cammino a ritroso, che come in un esoterico rito le restituisce riflessa in uno specchio parlante la “dimensione molto simile al vero” dei momenti esaltanti della lontana stagione dell’amore, disperatamente rimpianta ed ora rivissuta nell’attimo cruciale” della “breve fuga” all’indietro, che però è solo un viaggio astratto, fuori tempo, anch’esso da relegare nell’”area del ricordo”.
Trame e immagini delle storie sepolte, delle “memorie antiche”, delle vicissitudini cancellale, riconquistate per un istante dall’empito arcano del lirico afflato, altra consistenza quindi non hanno che quella provvisoria dei “magici segni” e dei dolci suoni verbali, ricreanti magari la fragile consistenza dell’incanto evanescente della visione e del sogno, ma che certo non giovano a far capovolgere, nel senso fervidamente sospirato, la realtà esterna lastricata d’inquietudini e tensioni esistenziali, che tuttora guidano i passi sulla strada “verso l’ignoto”.
Si frantuma allora e nuovamente si disperde nella lontananza delle perenni nebbie fredde e spente la figurazione ideale irradiatasi in un lampo intorno al “volto” dell’”’angelo amato” e ricontemplato nell’estasi fuggevole, mentre “sulla soglia” della vita reale riappare e intransigente vi “rimane il dolore”.
L’eco dell’incertezza del turbamento, dell’angoscia, in verità mai sparita e più lancinante di prima, torna perciò ad insinuarsi tra le pieghe tormentate dell’umana vicenda, con vivida schiettezza dalla Rocco confidataci in questo suo limpido itinerario poetico di sognato ritorno, steso e consacrato nella pagina fedele con alterne e collegate narrazioni in prosa, sul filo esplicito o implicito della annotazione diaristica, per meglio illustrarne l’essenza del motivo ispiratore.
Marcello Danzè
Parentesi anno II n 8 maggio 1990