Associazione Culturale Parentesi

Fondata a Messina nel 1989.- “Parentesi” Rivista bimestrale di politica, economia, cultura e attualità diretto da Filippo Briguglio. Reg. Trib di Messina 18/02/1989. Iscritto nel Registro Nazionale della Stampa con n°3127 Legge 5881 n° 416.

ITINERARIO ARCHEOLOGICO NEL TERRITORIO DI TUSA – ALAISA ARCONIDEA, UN MISTERO DA SVELARE

 

di Bruno Villari


(a sinistra il campanile della antica chiesa di San Nicola, al centro il Calvario, a destra la torre medievale)


   Aggrappata da una decina di secoli sopra un colle di seicento metri, Tusa signoreggia una delle valli più dolce e luminosa dei Nebrodi.

Visto dalla litoranea l’abitato sembra toccare il cielo.

Ma quando vi si giunge e si volge lo sguardo verso il basso, il mare sembra a un tiro di frombola. Ed è soltanto la prima delle sorprese.
La seconda è sicuramente la presenza della palma, una pianta che ama i tepori delle riviere e mal s’adatta ai rigori delle altitudini. Questo vuol dire che malgrado i seicento metri gl’inverni tusani sono miti. Terza sorpresa è lo scirocco, teso, caldo e opprimente come nelle città costiere dell’isola. Poi. quando si entra “dentro” te strade, le piazze, i vicoli, le case, le chiese e le persone, si entra anche nella lanterna magica del passato, attraverso una sequenza di immagini, suggestioni, rapimenti, evocazioni che solo con fatica si possono riconoscere come realtà. Tusa e una delle poche città della provincia che si possono ancora “leggere” passeggiando per le vie e guardandosi attorno. La sua storia è impressa sulle pietre degli edifici non meno che sui volti delle persone, che sembrano consapevoli di una cittadinanza illustre più antica del mille di almeno un millennio e mezzo, fino ai fasti di Alaisa le cui rovine sono in gran parte sepolte giù nella valle, sulla collina di Santa Maria delle Palate, verso cui i tusani guardano giustamente come alla tomba della madre. Alaisa fu fondata nel403 a.C. da Arconide, signore di Herbita e nipote di Ducezio, per sistemarvi una colonia di mercenari siculi reclutati per sostenere la guerra contro Dionisio. Il sito era stato già colonizzato nel 405 a.C. da mercenari campani licenziati dai cartaginesi dopo la pace con Siracusa. Ma nel 404 a.C. gran parte del gruppo lasciò la zona per aggregarsi alla colonna di mercenari italici che avevano lasciato Siracusa dopo avervi ristabilito l’ordine al soldo di Dionisio. La colonna che si trascinava dietro giumenti e carri sopraccarichi di preda accumulata nei saccheggi di Selinunte, Imera, Agrigento e Gela, era diretta verso Entella che fu conquistata. Narra Diodoro che uccisi gli uomini più giovani i campani si impossessarono dei loro beni e delle vedove dando vita al primo stato italico in Sicilia.

Quei campani che non si aggregarono alla colonna diretta a Entella, hanno lasciato traccia della loro permanenza in zona nel toponimo del fiume Opicano, oggi Cicero, ma anche nel culto di Apollo. Ma è probabile che nello stesso gruppo di colonizzazione inviato da Arconide, vi fossero molti mercenari campani allora i migliori e reclutati in tutta l’area punico-ellenica del mediterraneo.

L’insediamento aveva il carattere militare in una zona di attrito dove i cartaginesi e siracusani si disputavano la supremazia sull’Isola e minacciavano le sopravvivenze sicule. A quel primo periodo sono da attribuire probabilmente i templi di Zeus Milichios, di Apollo e di Adranos posti fuori le mura per riaffermare il legame tra la città e il territorio agricolo circostante.

Il tempio di Zeus, secondo le tavole alesine, si trovava nell’attuale contrada hospitalis al centro di un vasto agro tra Alaisa e Tusa, già da allora intensamente coltivato a uliveto e quercia da sughero. Ancora oggi si rimane affascinati, come accadde a Jean Houel nel XVII secolo, di fronte agli incredibili tronchi di ulivo, dalle mille forme irreali, tutti possenti come gruppi marmori ellenistici eretti a sfidare l’eternità. Ma molti di quegli alberi muti, curati dai contadini come statue di santi possono testimoniare fatiche di decine di generazioni.

Giova ricordare che le popolazioni preelleniche della Sicilia coltivavano da tempo non soltanto l’ulivo e la quercia da sughero, ma anche il frassino della manna, il castagno, il pero, il melo, il pino, il faggio, la vite, il fico, le fave, l’orzo e il frumento che si riteneva anzi una pianta indigena. Durante gli anni di Timoleonte anche Alaisa fece parte della Symmachia siciliana come suggerisce una nota serie numismatica.
Nel 267 a.C. Alaisa fu conquistata da Gerone e nel 263 a.C. fece atto di sottomissione ai consoli romani Valerio Massimo e Otacilio Crasso. Per questa scelta di campo sarà ricompensata con la libertà e l’immunità tributaria. E farà anche parte di quel gruppo di 17 città designate alla custodia del tempio di Venere Ericina. Questo status risale verosimilmente alla seconda guerra punica e all’assetto dato all’isola da Valerio Levino e sarebbe confermato da una iscrizione di Delfi del 200 a.C. circa, in cui sono scritti i nomi dei cittadini che ospitarono i sacri messi del tempio mandati a invitare le città libere a partecipare ai Giochi pitici. Fra le città siciliane c’é Alaisa, la più occidentale delle città invitate, evidentemente considerata l’estrema frontiera ellenica della Sicilia. Alaisa, insieme alle altre sedici città designate da Roma, forniva soldati impiegati per la vigilanza al tempio di Venere Ericina (culto introdotto a Roma nel 217 a. C), come truppe di pronto impiego in casi d’emergenza e per normali compiti di polizia. Queste milizie erano comandate da un tribuno militare alle dipendenze del pretore o propretore della provincia.

Agli inizi del II secolo a.C. la città ha già organizzato un punto di imbarco del grano prodotto all’interno dell’isola per essere spedito a Roma nelle varie forme di esportazione previste dai trattati, dalle decime ai diversi gradi di “frumentum”. Ma la prosperità proviene dall’agricoltura e specialmente dall’ulivo. La distribuzione della proprietà fondiaria di Alaisa è nota per la scoperta delle cosiddette Tavole alesine il cui testo è stato tramandato dal Torremuzza che lo ha copiato dagli originali presso il Collegio gesuitico di Palermo. Da qui, nel XVII secolo, furono trasferiti in Spagna quando i Gesuiti lasciarono la Sicilia. Si tratta di un grosso frammento di iscrizione catastale che riguarda i terreni demaniali da destinare all’affitto e doveva probabilmente contenere il testo della legge che disciplinava il regime locativo dei terreni pubblici. L’agger pubblicus destinato all’affitto era diviso in lotti distinti da un numero progressivo con l’indicazione del distretto cittadino a cui erano destinati in locazione.

I confini dei lotti sono indicati con precisione facendo riferimento a fiumi, strade, muri, alberi di ulivo contrassegnati sulla corteccia, edifici rurali, le terme, i templi di Adranos e di Zeus, torri di osservazione, pietre di confine, un grande querceto a corteccia suberosa e un frantoio.
Come segno confinario è anche indicata una cloaca cittadina che correva lungo la fucina e la cucina che erano presso il tempio di Apollo fuori le mura, dove la fucina potrebbe essere quella della zecca.

II regime affittuario era integrato dalla piccola e media proprietà agraria. Alcuni lotti pubblici risultano dalla parcellizzazione di fondi acquisiti da privati, come lascerebbe pensare l’uso in comune di un edificio rurale fra due affittuari. Anche il frantoio era destinato a due beneficiari. Gli affittuari dei lotti dentro cui ricadevano i templi di Adranos e di Zeus avevano l’obbligo di lasciare libero un accesso e una fascia limitrofa intorno all’edificio. L’affitto veniva attribuito per gara pubblica al maggiore offerente fra coloro che avevano già versato un decimo dell’offerta. Questo impianto dell’economia cittadina si può sostanzialmente considerare stabile per lungo tempo, almeno fino al riassetto augusteo della provincia siciliana. Durante questo lungo periodo Alaisa (o Halaesa) compare in una iscrizione del II secolo a.C. dedicata a Lucio Cornelio Scipione Asiatico da cittadini italici (forse pubblicani), in una disputa tra fazioni cittadine regolata dal pretore Claudio Pulcro (a cui viene dedicata una statua ora al municipio), e in una iscrizione pubblicata e commentata dall’archeologo Giacomo Scibona sulla rivista Kokalos (XVII, 1971), databile fra il II e I sec. a.C, in cui una nave della città risulta impegnata con altre navi di Herbita, Kalé Akté e Amestratos, in una azione di guerra marittima contro probabili pirati che operavano in zona. E non è casuale che la flottiglia, agli ordini del magistrato romano Caninio Nigro, fosse composta di navi armate da “centri ricadenti in un ambito unitario geopolitico che si collegherebbe, alla lontana, alla symmachia timoleontea ‘ ‘. Gli scavi archeologici, condotti fino adesso con prudenza e scarsa convinzione a causa dell’estrema friabilità della pietra di costruzione quando è riportata alla luce e all’aria, si sono praticamente fermati. Tuttavia L’antica chiesa di S. Nicola non si pensa di sospenderli fino a quando non sarà scoperto un procedimento in grado di contenere questo pericolo. Ma chi lo deve scoprire? Sono in corso delle ricerche? È stato consultato il Cnr? La dottoressa Giovanna Maria Bacci, Soprintendente di Messina, assicura che il suo ufficio ha già avviato i contatti opportuni per venire a capo di questo delicato problema e sottolinea l’impegno a proseguire gli scavi anche se ritiene prioritaria l’esigenza di approfondire gli studi e consolidare il restauro di quanto venuto alla luce fino adesso. L’impegno a proseguire sembra peraltro confermato dall’iniziativa regionale di acquisire una parte dell’area collinare di S. Maria delle Palate, già recintata ma verosimilmente di gran lunga inferiore all’estensione urbana di Halaesa. È comunque possibile che altre aree vengano sottoposte a vincolo. Intanto la Soprintendenza si sta occupando di una necropoli della tarda età imperiale, scoperta in prossimità della statale, che ha restituito, oltre al solito materiale fittile di corredo, una iscrizione in caratteri greci intestata ad una giovane donna di nome Irene.

Purtroppo la Soprintendenza è potuta intervenire a scavo inoltrato quando la ruspa aveva già sconvolto il sito e frantumata una cospicua quantità di materiali che così sono andati definitivamente perduti.

Si spera che l’associazione Halaesa, presieduta dal giudice Antonio Osnato, costituita per la salvaguardia del patrimonio culturale del territorio, possa contribuire a determinare una inversione di tendenza.

Bruno Villari

 

Parentesi anno II n.8 maggio 1990

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