Associazione Culturale Parentesi

Fondata a Messina nel 1989.- “Parentesi” Rivista bimestrale di politica, economia, cultura e attualità diretto da Filippo Briguglio. Reg. Trib di Messina 18/02/1989. Iscritto nel Registro Nazionale della Stampa con n°3127 Legge 5881 n° 416.

recensione lbri: “l’altro garibaldi” di carmelo santalco,edizioni nuova eri

“Garibaldi alla sbarra

L’iniziativa “giudiziaria” è del senatore Santalco in un libro di valore storiografico discutibile.

di Bruno Villari

I nostri tempi di pubblicazione non ci hanno consentito di “passare”; nell’immediatezza della sua comparsa, una nota sul libro “L’altro Garibaldi” di Carmelo Santalco stampato per la Nuova Eri (Edizioni “mamma” Rai) e introdotto da Roberto Gervaso con un trafiletto di sostegno in cui si afferma che l’autore ha riportato Garibaldi
“alle sue reali dimensioni” ed è un peccato “che nessuno ci abbia pensalo prima”. Vediamo perciò quali sono le “reali dimensioni” del personaggio emerse dal libro, ammesso (ma non concesso) che Santalco sia il primo storico del” vero” Garibaldi. Per creare un livello di comunicazione più immediata l’autore immagina un dibattimento penale, e per chiarire subito da quale parte preterisce stare, fa vedere Garibaldi sul banco degli imputati. Gli dà ovviamente un difensore, ma si tratta di un difensore d’ufficio che non ha molta dimestichezza con la sterminata bibliografia garibaldina e perciò quando non tace, è costretto a fare appello alla clemenza della corte.
Ma anche l’imputato sembra non conoscere del tutto la sua vita e spesso tace anch’egli o si appella a quanto già scritto da altri o da lui stesso, ingenerando il sospetto di reticenza.
Mattatore del processo è il pubblico ministero nel quale si potrebbe identificare l’autore del libro ma non necessariamente.
Egli sceglie i temi da affrontare e, a giudicare dall’insistenza con cui torna sempre sull’argomento “donne”, si deve presumere che lo considera fondamentale per riportare Garibaldi “alle sue reali dimensioni”. E cominciano con un piccolo saggio che illumina sulla levatura dell’accusatore e su quella attribuita a Garibaldi. A proposito di Battistina Raveo, dalla quale il generale ebbe una figlia che morì a 16 anni, il presidente domanda all’imputato se si trattava (la Battistina s’intende), di una bella ragazza. E Garibaldi: – Di nessuna bellezza: era piccola, dalla fisionomia volgare.


Però era giovane e fresca. E il pubblico ministero sottolinea: Come una gallinella sulla quale Garibaldi si è buttato a pesce.
E Garibaldi conclude: Dopo lunga astinenza! E così, con questo tono disinvolto e “borgataro” sono trattate tutte le vicende sentimentali dell’uomo, quasi a contargli i “colpi”, incalzandolo con piglio inquisitorio come fanno i vecchi moralisti inibiti e preoccupati, nello stesso tempo, di infliggere al peccatore un onesto castigo adeguato alle colpe o, meglio, ai “colpi”. Alcune delle attribuzioni poi, non si reggono in piedi e lo stesso imputato non sembra esserne bene informato. Valga per tutte quella di Giuseppina Bolognani, cioè Peppa ‘a cannunera, inserita in un lungo elenco di amanti tra cui c’è anche la contessa di S. Elia, messinese.
Giuseppina nel 1860 aveva appena 19 anni e tirava avanti tacendo il duro mestiere della procaccia fra Barcellona e Catania dove si fermò dal 28 gennaio 1860 facendosi coinvolgere nella rete cospirativa antiborbonica. Il 22 maggio fu arrestata dalla polizia ma fu rilasciata con la promessa che avrebbe fatto la spia per il comando borbonico.
Il 31 maggio, giorno della rivolta, tradì i regi facendoli cadere in un’imboscata e partecipando attivamente al combattimento di piazza Quattro Cantoni in qualità di cannoniera. Perduto lo scontro si ritirò con gli altri a Mascalucia dove, puntando cannoni contro il paese e tenendo la miccia accesa nella mano, minacciò il bombardamento se gli abitanti non avessero desistito dall’ intenzione di catturare i rifugiati per timore di rappresaglie borboniche.
Dopo il ritiro dei regi verso Messina i due cannoni furono riportati a Catania e in seguito conservati nel castello Ursino in memoria dei fatti e del personaggio.
Con il governo provvisorio Giuseppina fu arruolata nella Guardia nazionale catanese e partecipò all’azione contro Siracusa. Fece anche parte della colonna Poulet che represse i moti di Biancavilla. A Catania, durante un tumulto del maggio 1861, fu anche ferita al seno. Lasciò Catania il 6 agosto 1861 per rientrare a Barcellona Poi si trasferì a Messina. Non si capisce quando e dove abbia potuto incontrarsi con Garibaldi. Il municipio di Catania, riconoscente, le conferì un sussidio provvisorio. Successivamente ebbe una pensioncina dello Stato. Ma mori in miseria nel 1900. Nessuno si ricordava più di lei.
Se ne ricorda dopo novant’anni il senatore Carmelo Santalco per infangarne la memoria con l’attribuzione di un amante, seppure illustre, che lei scuramente venerava ma che non vide mai, forse neanche nel marzo 1882 quando lei aveva 41 anni e Garibaldi, oramai era un piccolo corpo accartocciato dall’artrite deformante, tornò in Sicilia per il sesto centenario dei Vespri.
E veniamo al capitolo del matrimonio con la Raimondi e della immediata separazione per via di una lettera che rivelava a Garibaldi una relazione della moglie con un certo Caroli. Relazione confermata dalla stessa Raimondi che poi si oppose sempre all’annullamento del matrimonio.
Si oppose anche quando, costretta a chiedere una firma di Garibaldi per contrarre un mutuo, si sentì rispondere che l’avrebbe ottenuta a condizione di reciprocità. E guarda caso il pubblico ministero di questo singolare processo lo accusa di atteggiamento ricattatorio!
Ma forse questo capitolo “donne” non menta altro spazio.
Passando alle valutazioni militari e politiche c’è solo l’imbarazzo della
scelta. Prendiamo ad esempio un presunto giudizio che il solito pubblico accusatore attribuisce a Maxime Du Camp senza però citare la fonte letteraria da cui l’ha tratto; e avrebbe fatto bene a indicarla visto che nella bibliografia del libro non figura alcuna opera del Du Camp. Il giudizio: “Era un uomo (Garibaldi) di sciabola e di colpi di mano che si è creduto un uomo politico; quando egli scrive, quando parla, mostra chiaramente che avrebbe fatto bene a starsene zitto. Nessuno è stato giudicato peggio di lui; i suoi ammiratori ne fanno un dio, i suoi detrattori lo trattano da vecchia bestia”. La ragione per cui sarebbe stato bene citare la parte completa e presto detta: Nell’Expédition des deux Siciles Du Camp dice di Garibaldi bene altre cose in vari luoghi, che contraddicono questo giudizio riportato dal pubblico ministero a sostegno della sua tesi demolitoria.
Ne citiamo gualche brano dell’edizione curata da Maria Gabriela Adamo (Edizione Parallelo 38, 1976): Garibaldi è “l’abnégation et le désintéressement”, “il aime la Patrie, non pour ce quelle peut lui donner, mais pour ce qu’il peut lui donner luimême, et cette convintion de la pureté de son amour… est la meilleure cause de l’entraînement extraordinarie qu’il exerce ‘’ , “Jai eu plus d’une
occasion, dans ma vie, d’approcher ces êtres enviés et supérieurement
médiocres qu’on appelle des hommes célèbres ; y ‘ai toujours été surpris de peu d’ammiration qu’il convient d’avoir pour eux. Garibaldi ne m’a fait éprouver aucune déception. Il est né grand comme il est né blond… “,”li a accompli naïvement des oevres énormes, ne tenant jamais compte des obstacles”, “entre Garibaldi et le peuple italien, il y a confiance absolue; ils sont persuadés, l’un qu’il y mene à la victoire, l’autre qu’i y est conduit cela seul sufit a expliquer bien des trionphes”. “les Italiens suivent Garibaldi comme les croisés suivaient Pierre l’Eremite”. E cosi via.
C’é quindi da chiedersi come poteva Du Camp scrivere quello che il pubblico ministero gli attribuisce. La mediocrità del pubblico ministero si manifesta anche in molti dei luoghi comuni sciorinati dai denigratori di sempre. Come potevano ad esempio, mille e rotti volontari, sostenuti da mezzo migliaio di picciotti, battere tremila regolari a Calatafimi?
Le solite stupide domande di chi crede che le battaglie si vincano su la carta piuttosto che sul terreno e nel cuore dei combattimenti. Perciò non vale proprio la pena di parlarne se non per confutare che a Milazzo le forze preponderanti erano quelle di Bosco (6 000) e non quelle del Medici (4.400). Solo che Bosco, considerato il migliore soldato del regno, mise in campo poco più di due terzi dei suoi effettivi. Ed era il migliore! Ridicola è certamente la tirata su Garibaldi pessimo socialista, portando come prova un contratto di lavoro pastorizio formulato con le norme in vigore nella zona e liberamente sottoscritto dalle parti; contratto che oggi sembra favorevole al proprietario delle bestie (cioè. Garibaldi) e quindi non tanto equo. Ma queste erano le regole accettate da tutti. Non si capisce perché Garibaldi, che viveva soltanto di quello che produceva a Caprera e di qualche rimessa dei suoi ammiratori, dovesse farne uno diverso, magari contro i suoi interessi e quelli della sua famiglia. E sicuramente in questo caso il pubblico ministero lo avrebbe accusato di scarso interesse per il bilancio familiare così come lo ha accusato, in vari luoghi della sua arringa, di scarso amore per i figli per avere passato molto del suo tempo in guerra.
Molto gratuita appare anche l’affermazione che non avesse fede politica. Perché in tal caso c’è da chiedersi che cosa s’intende oggi per fede politica, anche se lo possiamo immaginare mettendo insieme le vicende personali della gran parte degli uomini politici.
E adesso occupiamoci della vexata quaestio, la morte di Anita intorno alla quale si continuano a fare delle “sensazionali rivelazioni” che scoprono soltanto l’acqua bollita. Sulla vicenda, peraltro, Nino Bonnet si è ampiamente soffermato nel libro “Lo sbarco di Garibaldi a Magnavacca” che non appare nell’elenco bibliografico di Santalco. Nel 1932, il libro fu ristampato con la prefazione del generale Ezio Garibaldi il quale, a proposito della morte della nonna, scrive che la narrazione del Bonnet “su questo punto può considerarsi definitiva”. Cercheremo di sintetizzarla anche per il pubblico ministero che mette nella bocca di Bonnet cose che lui non ha detto nel suo libro. Dunque, Anita, incinta di sei mesi e allo stremo, fu portata da Garibaldi e dal maggiore Culiolo alla fattoria del marchese Guiccioli, curata dai fratelli Ravaglia.
A condurli con un calesse (su cui era adagiata solo Anita) era stato Michele Guidi, uomo di Bonnet. che scrisse una relazione testimoniale nella quale è affermato che al loro arrivo alla fattoria trovarono, oltre a Giuseppe Ravaglia, il medico Nanini, operai, coloni e altre persone. II medico visitò Anita trovandola in fin di vita. La povera donna ebbe solo il tempo di chiedere un bicchiere d’acqua e berne qualche sorso. Poi spirò. Bonnet era assente perché convocato a Ravenna dal comando austriaco che lo sospettava di avere aiutato i fuggiaschi. Sospetti ben legittimi dal momento che uno dei fratelli Bonnet, Raimondo, comanda a Roma uno squadrone di cavalleria, e un altro, Gaetano, vi era morto durante la difesa della città.
Raggiunse la fattoria all’indomani e vi trovò Stefano Ravaglia disperato che gli annunziò la morte e il seppellimento di Anita, raccontandogli che la donna era morta alla presenza del marito e di Culiolo ma anche di contadini e operai della fattoria. Per giunta Garibaldi, nel raccomandare il cadavere alla pietà di tutti i presenti, si era pericolosamente manifestato. Perciò lui, temendo che qualcuno
potesse fare una soffiata alla polizia, si era sbarazzato del cadavere
sotterrandolo sommariamente nella fattoria. Bonnet lo redarguì per questa decisione ma lo comprese. Tuttavia, gli disse di rimuovere il corpo dal luogo dov’era seppellito e inumarlo lontano dalla fattoria prima che qualcuno avesse il tempo di fare la segnalazione alla polizia. Cosa che Ravaglia promise di fare quella notte e che invece noi fece. Così dopo alcuni giorni una ragazzina passando da quelle parti vide una mano che sporgeva dalla terra e terrorizzata raccontò la cosa in famiglia. Poco dopo giunse la polizia pontificia e il cadavere venne riesumato. La perizia fu eseguita dal prof. Luigi Foschni che trovò un avambraccio spolpato dai cani, il corpo in avanzato stato di putrefazione e dei segni al collo che insieme alla lingua e gli occhi in fuori e una vertebra cervicale leggermente spostata, gli fecero dedurre che Anita “era stata strangolata forse ad oggetto di derubarla”. I Ravaglia furono quindi arrestati per alcuni giorni e subito prosciolti quando fu accertato dallo stesso Foschini che quei segni erano dovuti alla decomposizione. Ma per i poveri Ravaglia non era finita. Subirono anche una visita sgradevole del bandito Stefano Pelloni, il “Passator cortese”, il quale aveva creduto alla storia di un tesoro lasciato da Garibaldi in casa dei Ravaglia insieme alla donna viva. Perciò, si diceva, i Ravaglia avevano uccisa Anita, per impossessarsi di questo tesoro. “Nulla di più falso”, scrive Nino Bonnet. E lo stesso Garibaldi quando nel 1859 andò a Mandriole per prelevare le ceneri della moglie dalla chiesa, smentì seccamente queste basse insinuazioni e abbracciò pubblicamente i Ravaglia.
Ma avviamoci alla conclusione passando in rassegna fugace qualche fiorellino della requisitoria del pubblico ministero.
Intanto immagine oleografica di Garibaldi, che egli vorrebbe smontare, è soltanto un luogo comune. Garibaldi è insieme a Cesare e Napoleone, uno dei personaggi più dissacrati dalla letteratura storica. Le reticenze messe nella sua bocca durante il processo sono soltanto delle invenzioni letterarie dell’autore. Il pubblico ministero lo definisce pirata. Ma nelle guerre sudamericane Garibaldi era corsaro che è cosa ben diversa. Che abbia esultato per Pio IX nel ’48, quando Quel pontefice aveva declamato di voler cacciare gli stranieri dall’Italia, e lo abbia poi condannato dal 1849. quando il papa aveva chiamato gli stranieri per riprendere possesso del proprio regno, non è tanto strano come vuole far credere il pubblico ministero. È viceversa molto comprensibile.
É errato che nel “49 Garibaldi abbia chiesto a Mazzini la dittatura: aveva chiesto soltanto il comando dell’esercito. Ed è anche falso che abbia indicato la dittatura come la forma di governo più idonea per l’Italia. Egli viceversa credeva fermamente nella democrazia parlamentare ma anche nella dittatura come emergenza limitata nel tempo.
Il suo modello politico era cioè la repubblica romana.
È anche errato che nel 1860 La Farina, mandato da Cavour a Palermo, sia stato richiamato indietro. Fu invece espulso da Garibaldi, accompagnato da un ufficiate a bordo di una nave da guerra sarda e consegnato personalmente al contrammiraglio Persano.
Il pubblico ministero trova contraddittorio che egli abbia combattuto nel 1870 in Francia dopo essere stato irriducibile avversario di Napoleone III. Ma allora non ha proprio capito molto di questo personaggio e della sua grande fede nella libertà dei popoli.
E non si è, ovviamente, sottratto neanche alla tentazione di credere che Garibaldi abbia vinto nelle Due Sicilie grazie al tradimento dei generali napoletani.
Nel marzo 1890 Francesco II, rispondendo ad un biglietto del cognato di Pianelli che gli allegava una lettera dell’ex ministro della guerra borbonico nella quale egli dichiarava di non avere “mai dubitato un istante che l’Augusto signore nell’intimo della sua coscienza ha dovuto costantemente ritenermi come suo fedele, leale, onesto e disinteressato servitore” scriveva che le espressioni del generale “si sono completamente incontrate coi sentimenti che nel mio cuore ho sempre avuti”. Sugli altri generali Francesco ha lasciato dei giudizi, come dire, molto sintetici: Lanza “celebre coglione”, Bonelli. “ciuccione”, Rocco, “nullità”, Sigrist, “minchione”, Buonapane, “bestione”. In mancanza di un giudizio su sé stesso gli potremmo accreditare quello di “seminarista vestito da generale” dovuto al Lampedusa.
A proposito, Francesco, a differenza dei borbonici contemporanei non sopportava che Garibaldi fosse definito “filibustiere”, e rimproverò perfino il fratellastro Alfonso per avere osato: “È una parola che non voglio più sentire. I veri filibustieri sappiamo chi sono”. E lasciamo immaginare chi volesse intendere.
Insomma, un libro, quello di Santalco. che non toglie né aggiunge niente alla figura di Garibaldi. Perciò una fatica vana dal valore storiografico zero.
Concludiamo con ben altra musica, con due magistrali pennellate di Giovanni Spadolini: “La leggenda garibaldina è il solo filo nazionale della nostra stona moderna” e “Non ci può essere Italia unita senza il fondamento di Garibaldi”. Cosa, quest’ultima, della quale sono consapevoli soprattutto i “leghisti” delle varie latitudini, tutti concordi nel mirare su Garibaldi.
Bruno Villari
Parentesi anno II n. 8 maggio 1990

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