È MORTO LEONARDO SCIASCIA, IL CANTORE DELLA SOLITUDINE
di Mario Rappazzo
“Quando sarò morto lasciate il mio corpo, i più a lungo possibile, in questa casa. Poi, desidero funerali semplici, senza necrologie né camere ardenti. Seppellitemi nella mia terra, a Racalmuto”. Queste le ultime volontà, l’estremo desiderio di Leonardo Sciascia che il 20 novembre chiudeva il conto con la vita nella sua casa di Palermo dopo un lungo e inguaribile male sopportato con stoica fermezza.
Con lui il ciclo delle grandi anime siciliane, iniziato con Pirandello, si conclude, e si conclude pressappoco con la stessa determinata volontà di finire nel modo più semplice possibile senza lussi e senza pompe eccessive. Di poche parole, timido, non amava mettersi in mostra, schivo alle conversazioni, adoperava la penna come scure tagliente, nelle cose italiane e siciliane in modo particolare, senza riguardo per alcuno, soprattutto per la storia che per lui aveva solo i termini della libertà e della verità. Amava la sua Sicilia con la stessa forza con cui la detestava, un paese, secondo lui, senza futuro, tarlata da un male peggiore della miseria e della fame; la mafia che fu sempre il suo maggiore rovello, l’angoscia della sua vita, vissuta immutabilmente in prima fila senza timori o paure sottintese o palesi, sempre contro i potenti nei confronti dei quali conduceva la sua battaglia letteraria, le sue polemiche, sia nella vita sociale che in quella politica. Di quest’ultima aveva avuto una visione sempre chiara e corretta, anche se non sempre coerente; fatto quest’ultimo che si giustifica con l’incoerenza della parte nelle cui file aveva cercato quel tanto di giustizia sociale e umana cui aspirava.
Aveva iniziato la sua missione letteraria da illuminista, e la finì da pessimista. Un pessimismo derivato dalla sconfitta della ragione, e che confinava nello scetticismo. Come in Pirandello questa sua componente di pessimismo e di scetticismo, aveva origine non da un senso di disfatta, ma da una accettazione intelligente della sua complessa natura di siciliano dell’intera umanità.
I suoi romanzi, d’altra parte, possono considerarsi lo specchio della sua invenzione narrativa, non eccessivamente fantastica, ma sufficientemente penetrante nei risvolti e nelle ambigue suggestioni del repertorio siciliano, che possiamo definire addirittura abissale, senza fondo, talmente questa terra si presta alle più terribili come alle più meravigliose interpretazioni.
Dalle sue prime “Favole della dittatura” del 1950, a “Todo modo”. 1974 all'”Affare Moro”, 1978. a “Il cavaliere della morte” e, per ultimo ad “Una storia semplice”, per accennare solo ad alcuni, i lavori di Sciascia rappresentano la coscienza critica della società, il suo grande desiderio di mettere a nudo, cogliendo l’attualità della storia, la parte più obbrobriosa dell’animo umano, che nei romanzi sapeva rendere straordinari ed attraenti. La vena poliziesca dello scrittore di Racalmuto, a “Il giorno della civetta”, assume una parte preponderante di quella che potremmo chiamare la metafora della vita e della realtà che essa implica. In effetti i testi di fiction di Sciascia possono essere considerati una messa in crisi del genere poliziesco, perchè quello che in essi domina non è l’esaltazione della tattica holmesiana, ma la copertura ironica, spesso anche sarcastica che lo Sciascia, maestro di enigmi sa sciogliere con una realtà esclusivamente essenziale quanto accidentale della trama.
Non per nulla egli riteneva che i suoi maestri del mistero erano stati Chesterton più che Poe, e che ad attrarlo di più nella soluzione dell’enigma era il mantenimento del mistero che non ha mai soluzione, anche quando sembra trovarla.
Anche sul piano della realtà storica italiana di questi ultimi tempi, Sciascia aveva la sua opinione condita di sardonica ironia “il mistero -egli dice – è diventato il pane quotidiano della polizia, e della magistratura e dell’opinione italiana. Il pane – intendo – che dice pane al pane. Tutti gli altri sono misteri, destinati a restar tali o a costituirsi in misteriosi errori Dell “ultimo mezzo secolo, dal caso Montesi al
caso Ligato, potremmo farne un elenco terrificante. Appena in un delitto vien fuori, magari a sfiorarlo, la politica, comincia l’insolubile mistero”.
Questo il suo modo di approdare alla verità umana. Tutto si colora di dubbio e di incertezza. Un po’ come avviene in Pirandello di cui Sciascia è, possiamo dire, il discreto continuatore.
Uno scrittore grande per quanto scomodo e poco amato dai grandi consumatori di ipocrisia e di perversi delitti contro i umanità. E adesso la morte lo ha messo a tacere, anche se le sue idee resteranno per sempre scolpite nella memoria di coloro che non possono dimenticare; di coloro che subiscono il compromesso dei potenti con il potere mafioso.
–
Mario Rappazzo
Anno I n. 5 novembre/dicembre 1989