Associazione Culturale Parentesi

Fondata a Messina nel 1989.- “Parentesi” Rivista bimestrale di politica, economia, cultura e attualità diretta da Filippo Briguglio. Reg. Trib di Messina 18/02/1989. Iscritto nel Registro Nazionale della Stampa con n°3127 Legge 5881 n° 416.

Arte e storia: STRUMENTI FUSI DAI SANCES FONDITORI IN MESSINA

 

IL “CAMPANONE ROTTO” E LA “CAMPANA RITROVATA”

di Fortunato Pergolizzi

 

Una grande campana è stata sistemata, nel mese di giugno del 1988, nel campanile della chiesa del Monastero di Montevergine, dov’era custodita, per scandire con rinnovati rintocchi, il saluto al papa Giovanni Paolo II, venuto in Messina per elevare sugli altari la “Vergine” Eustochia Calafato.

Lo strumento, recuperato tra le macerie del terremoto del 1908, attraverso gli ornamenti che la cingono, rivela l’anno della sua fusione, avvenuta nel 1641, quando il governo in Sicilia veniva assunto pro-tempore (essendo il viceré duca di Assumar, delegato a trattare la pace con i francesi) dal vescovo Pietro Corsetto, presule di Cefalù, il quale ascrisse a suo merito, qualche intervento a favore della città di Messina, afflitta dagli interminabili scontri tra francesi e spagnoli, e messa in ginocchio nella sua economia, dal predecessore, il famigerato duca di Ossuna, una mignatta insaziabile, arrogante esattore e come accade oggi, ladro di regime, in quanto pretendeva donativi fiscalizzati sottobanco.

Il vescovo Corsetto si distinse infatti, per avere alleviato la cronica penuria di frumento che agitava spesso nella città, lo spettro della fame, inviando una squadra di galee siciliane che ruppe t’assedio al porto falcato, condotto dalle tartane francesi, permettendo così l’ingresso delle navi cariche di grano, e per tale successo militare ricevette insieme al capitano generale Raimondo Cardona, una “graziosa” lettera elogiativa da Filippo IV, proprio il 21 dicembre del 1641.

Lo stesso anno, l’intolleranza religiosa che imperversava in Sicilia, mieteva vittime tra i laici e religiosi rei soltanto di manifestare il loro pensiero, cosicché finì sul rogo il francese Giovanbattista Verron, calvinista cui fecero compagnia Gabriello Tedesco Moro, perché si confessava maomettano, e il laico professo Agostiniano, il calabrese Carlo Tavolara, fondatore della setta dei Messiani” mentre in Messina, appunto nel 1641, la “Campana ritrovata” veniva fusa nella bottega del maestro fonditore Santo Sance.

Una famiglia quella dei Sance o Sances, come ti citava il Cuneo, che lasciava tracce della sua nobile arte, anche nel 1689, quando il viceré Bonavides, come atto riparatorio delle sue ribalderie contro la città soggiogata dopo la rivolta antispagnola, faceva fondere a don Cervo Sances un nuovo “Campanone’ per restituirlo ai messinesi in sostituzione di quello che aveva fatto rompere nel 1679, per ricavare il bronzo necessario alla fusione del monumento equestre a Cario il, opera del Serpotta, che sarà abbattuto dalla furia popolare nel 1848.

Il gesto del viceré fu la risposta per ammorbidire l’atteggiamento ostile dei vescovi siciliani che lo rimproveravano di eccessiva reazione nel punire i messinesi, con l’aggravante di aver messo a tacere il timido vescovo Cicala e Statella, muto testimone del martirio subito dalla città “.. di focu e turchi china..” per il tradimento di Luigi XIV, e il giorno della ricollocazione del Campano ne” ci fu gran festa in città, ma solo apparentemente, poiché la gente, riunita nel piano della Matrice, aveva la morte nel cuore, anche se sul palco, il vescovo benedicente era circondato dai canonici mitrati e da tutta la nobiltà fedele alla Spagna, che sciorinava ricami, palandrane e colorate gualdrappe.

E non mancò alla fine della cerimonia, il gesto plateale della contessa Giovanna Arduino, principessa di Palizzi, la quale donò per l’occasione, un prezioso paliotto destinato a decorare l’altare della Vergine Santissima della Lettera, e i rintocchi del nuovo “Campanone’ tornato nella cella dall’alto campanile, potevano solo ricordare ai messinesi anche l’ultima vittima della feroce repressione, quel “parrino” padre Vincenzo Bezzi dell’Ordine dei Predicatori, “…
della Provincia di Veneggia considerato un provocatore dal regime, per avere chiesto in nome del popolo, prima che lo avessero fatto i vescovi, la restituizione del “Campanone” e per questo suo ardire, fu chiamato in Palermo e condannato a morte dal potentissimo tribunale del Sant’Uffizio.

Ma la “Campana ritrovata” ci parla con altri segni di pace, consunti dal tempo ma ancora decifrabili. Lungo una banda che decora la sommità del calice dello strumento, sovrastata dal monogramma D. O. M. – Deo Optimo Maximo – si snoda la formula declamatoria intercalata da crocette, punti e rosette, cosi recitante: “…+ XPC VINCIT + XPC REGNAT+ XPC REGNAT + XPC IMPERAT+ S: D: S: F: S: 2 I MCXXXXI e, secondo le indicazioni del Samperi, il monogramma sintetizzava l’invocazione per difendere la Campana da fulmini e saette e da ogni disastroso accidente, interpretato con il fatidico “.. Sanctus Deus, Sanctus Fortis, Sanctus et Immortalis, una formula scaramantica ormai dimenticata.

Altri studiosi invece spiegano la sigla come la lettura della datazione riferita alla collocazione della “Campana ritrovata”, che andrebbe così tradotta: “.. Sub die Sexta Februarij Sita ..” Il Indizione 1641; come dire dunque che fu sistemata entro il sei di febbraio, in un giorno coincidente, secondo la tradizione locale, con i festeggiamenti dedicati a San Biagio, il vescovo di Sebaste d’Armenia, vissuto sino al 316, dal che si deduce che lo strumento poteva appartenere alla chiesa omonima situata sulla via dei Monasteri, poco distante dal convento della Beata Eustochia, di fronte al Monte di Pietà, chiesa che accoglieva le Confraternite degli staffieri, e dei palafranieri, pure essendo San Biagio, anche protettore dei cardatori e dei lanaiuoli, in memoria del suo martirio eseguito mediante la “cardatura” delle carni, effettuata con un pettine di ferro.

Non manca in tal senso un riferimento specifico nelle immagini che decorano la superficie anteriore della “Campagna ritrovata” dove sotto la banda delle iscrizioni al centro, è modellata una Madonna con bambino a mezzobusto, dall’apparente iconografia bizantina, figura appena intelligibile, fiancheggiata a sinistra da un santo vescovo con mitra e pastorale, sorreggente con la mano destra una fiaccola, emblema caratteristico appunto, di San Biagio, celebrato anche come medico e invocato il suo nome, per le malattie della gola, mentre a destra si intravede la tipica rappresentazione del Buon Pastore, sopra uno sperone di roccia, e il gruppo viene qui sottolineato dal versetto laudativo “… Ave Maria Grafia Piena. Sulla superfice opposta, campeggia una mandorla al centro che accoglie il monogramma del nome di Gesù “I H S” con alla base una sorta di giglio, sigla affiancata da due figure il cui abito talare, dal mantello lungo sino ai piedi e le tonache solcate da ripetute pieghe verticali, li fa sembrare monaci appartenenti all’Ordine dei Domenicani, e l’aureola che li cinge, oltreché un libro che tiene l’uno e l’altro con le mani congiunte in preghiera, portano a riconoscerli per San Tommaso e San Domenico e anche qui, il gruppo viene sottolineato dalla firma dell’artefice, il fonditore “… M(Maestro) Sanctus Sance Me Fecit..” nella fonderia che si trovava presumibilmente nell’area della attuale Intendenza di Finanza, sul fianco nord della chiesa di San Francesco, alla Bozzetta.

Sono queste, pagine sparse della storia di una città come Messina che fu cantata da “… milli amanti amata ..” le cui radici culturali sono state recise più che dalle calamità naturali, dalla iniquità degli uomini dimentichi ancora oggi che la “.. bedda Zancla in libertà vissuta/Superba non suffriu mai malucchiata/ Et a la reggia sua tantu timuta/ Nuddu misi arroganti na pidata Oggi invece l’arroganza va per Messina a piedi e sulle ruote del nume “Automobile”.

Fortunato Pergolizzi

“Parentesi”anno 1 n.2 maggio/giugno 1989

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