È la Beala Eustochia! Esclamarono alcuni studiosi dinnanzi alla «Annunziala» dipinta da Antonello da Messina, e che si conserva nel museo di Palermo.
Fu soltanto una suggestione poetica che non trovò fondamento storico, ma alimentò una tradizione che accomunavaidue grandi messinesi, coetanei e vicini di casa.
di Fortunato Pergolizzi
(da sinistra:Antonello da Messina, al centro lsanta Eustochia, a destra l’Annunziata Dipinto da Antonello)
L’Annunziata dipinta da Antonello e che si conserva nel museo di Palermo è il ritratto di Santa Eustochia?
Qualcuno lo credette e in buona fede, s’intende, cercò anche di documentale quella che sarà stata solo una suggestiva ipotesi.
Accadde allo storico Puzzolo Sigillo che, per uno di quegli impulsi che scaturiscono irrefrenabili, davanti al noto quadro ebbe ad esclamare:«…Machel’Annunziata?
Questo è il ritratto della Beata Eustochia!» cosi come si legge negli Atti della Reale Accademia Peloritana del 1935. E per dare corpo a tale istintiva affermazione, cercò sostegno in altre voci di studiosi puntellando la fragile impalcatura con un documento che credette in grado di siglare la validità della sua fantasiosa folgorazione, nata da un impulso patetico ma irrazionale.
Cominciava così l’improba fatica chiamando in causa il cavaliere Cutrera il quale aveva fugato, come del resto faceva, il Brunelli, ogni dubbio sulla autenticità della «Annunziata» di Palermo, assegnando la paternità dell’opera al pittore messinese, essendo l’altro dipinto con lo stesso soggetto, conservato a Venezia, una copia attribuita al nipote del maestro, Antonino de Saliba, per evocare ancora quanto aveva sunto sulla «Gazzetta di Messina» del 21 gennaio 1925, il professore Perroni Grande che cosi epilogava la sua opinione riferita alla identità della fanciulla dipinta da Antonello: «…Io credo invero che non si possa ammirare la bella «Vergine» leggente del sommo pittore messinese, senza rivedere colla fantasia la Beata Eustochia, che, nel silenzio arcano della sua cella, era solita leggere pensosa e ispirata, come narrava la «leggenda», il libro della Passione di Cristo, che ella stessa ave va composto…».
Ancora, purtroppo, affermazioni illusorie ipotetiche similitudini, manifestate sempre sull’onda emotiva ma che portano il Sigillo ad accettarla come valida attestazione, per cui si imbarcò anche alla ricerca di un discutibile confronto tra il corpo incorrotto della Santa, la «Vergine» come la intendevano i fedeli, e l’Annunziata di Antonello, alla ricerca di una somiglianza desunta dai caratteri mimici-somatici, riferiti in particolare, al tratto zigomatico arrotondato del viso ovale, come anche nella «somiglianza» della conformazione scheletrica, una improba fatica per affermare comunque, che l’Annunziata fosse il volto di Eustochia, un ritratto che certamente la severa monaca non avrebbe potuto desiderare o volere, vista la
disciplina a cui si era sottoposta e che osservava, e come si racconta, schiva persino di farsi vedere il viso che velava abitualmente, per mortificare la vanità della vita agiata che volontà riamente aveva ricusato, scegliendo la gravosa via della ascesi contemplativa.
Ma cercò pure di guardare le acque paludose della suggestione esibendo infine un documento che doveva dare certezza storica alle sue asserzioni, provare il rapporto tra i due coevi grandi messinesi, complice la presunta committenza del ritratto, e invece il rogito notorile riesumato dall’archivio di Stato, tra gli atti del notaio Leonardo Camarda, registrato nell’anno indizione 1461, riavvolgeva il gomitolo del dubbio, poiché il contratto era riferito a un dipinto perduto e non rimaneva altro da fare, che accontentarsi solo di accomunare i due personaggi, abitanti nello stesso «Quarterio dei Sicofantis, eccezionali dirimpettai, nell’affascinante aureola di due vite parallele, vissute ciascuno nella propria sfera, a un livello tale, da scrivere con il loro operato, pagine fortemente incise nella storia cittadina, con riverberi di valenza internazionale, specie quella che sugellava l’arte del grande Antonello. Il documento recitava infatti, il 30 gennaio del 1460, IX edizione 1461, Antonello si impegnava di fornire al nobile Giovanni Mirulla, altro abitante dello stesso quartiere, un dipinto che doveva rappresentare « … Quandam Jmaginem gloriosa Vergine Maria deauratam…»,una certa immagine, cioè, della gloriosa Maria Vergine Maria, indorata, con l’impegno di consegnare l’opera a metà Quaresima, senza specificare il luogo destinato alla allogazione e tanto meno altre indicazioni che potevano avere legami con «l’Annunziata», semmai confermava solo che, nel 1461 Antonello era tornato a lavorare nella sua città, dove nel 1464, acquistava una casa «diruta» adiacente alla sua, da un certo Rinaldo Lanza, per dare maggiore spazio alla famiglia e alla bottega. E tale casa era ubicata nel perimetro urbano delimitato del torrente Boccetta, dalla strada dei Monasteri (XXIV Maggio), la via Romagnosi e via Monsignor Bruno, detto il quartiere dei Sicofanti, dentro le mura normanne, che nel 1533 era degradato al punto da essere indicato in un atto notarile, come
la «…contrata di lu burdello seu Sanctu Luca….» e l’abitazione del pittore, dove avrà dipinto «l’Annunziata» e dettato le sue ultime volontà al notaio Mangianti il 14 febbraio del 1479, era presubilmente nell’area dell’isolato 369, della odierni via Santa Caterina dei Bottegai.
Però tra tanto arabescare di considerazioni, non si possono tacere le polemiche sorte tra gli studiosi i cui giudizi oscillavano nel concedere e nel togliere la paternità la paternità dell’Annunziata ad Antonello, anche perché nel dipinto mancava il cartiglio caratteristico con la firma usuale del maestro, e qualcuno addirittura la attribuiva al Durer, come diatribe si svilupparono pure sulla data dell’esceuzione dell’opera che alla fine trovò concordi Lauts, Brandi, Bottari e De Logu, che l’assegnavano definitivamente ad Antonello, fissandone la realizzazione, tra il l470-’74 e si giunse a dire, come insisteva il Brunelli, che il dipinto fosse stato eseguito in Palermo, una permanenza problematica e non documentata, ma che nulla toglieva all’alto significato artistico che si coagulava in quel meraviglioso volto di fanciulla.
Che la vediamo rappresentata con sul leggio un libro aperto a una lettura senza tempo, una tipica bellezza nata dall’infuso genetico mediterraneo, dal volto ovale neppure turbato dal solco naso-frontale, il così detto «profilo greco», dalla sguardo fermo e malizioso e la bocca perlacea volta a un remoto sorriso, ironico e ammiccante, si presenta dunque, come il prototipo di una realtà esistenziale dalla quale sono lontani il ritmo severo della Compieta e del Mattutino, come pure, le stimmate della dura vita dei campi.
Ma esprime soprattutto, la maturità stilistica del grande artista che aveva assimilato la lezione plastica-prospettica dei toscani, in sé rielaborati nella luminescenza fiamminga, che diventa timbricamente reale nel rigore volumetrico, secondo quella cadenza oggettiva, assunta come matrice inconfondibile del maestro.
Si può solo dire, per chiudere la vessata questione, che, se all’Annunziata prestò il volto come modella una fanciulla coeva della Santa Eustochia, e se come lei sarà vissuta nella Messina quattrocentesca alacre industriosa, che avrà visto come lo vide Eustochia, il cielo e il mare dello Stretto nell’incomparabile scenario, se quegli occhi hanno potuto vedere quello che ancora oggi possiamo ammirare, la chiesa di San Francesco, il Duomo, la piccola chiesa di San Tommaso, la Catalani, brandelli della città cento volte rinata, reliquie di un tempo perduto, quegli occhi allora, si possono in trasparenza, sovrapporre al volto della Santa messinese, il cui corpo è sì incorrotto, ma porta i segni apocalittici di «Sorella Morte», che la colse il 20 gennaio 1485.
Fortunato Pergolizzi
“Parentesi” anno I n. 1 marzo/aprile 1989