(Prospetto interno del Monte di Pietà dal lato del cortile(rilievo Francesco Basile)
di fortunato Pergolizzi
Natale Masuccio, nato nel 1561, gesuita e architetto, mostrò il suo ingegno progettando i Collegi del suo Ordine nelle città di Trapani, Palermo e Messina.
Scampato alla schiavitù dei saraceni, perché liberato dai Maltesi, operò nel 1610 a La Valletta, per un contestato acquedotto.
Tornato in patria nel 1611 si trovò al centro di un ennesimo contenzioso tra il suo Ordine e il Senato relativo alla richiesta dei religiosi messinesi e tendente a ottenere l’autonomia dalla Provincia di Palermo. Chi ci andò di mezzo fu Natale Masuccio il quale fini con l’essere sottoposto a processo dai suoi confratelli e soffri il carcere in Caltanissetta. ridotto alto stato laicale. Mori all’età di 58 anni, nel 1619, dopo aver realizzato la sua ultima opera, il Monte di Pietà di Messina.
«…Fidi ti salva non lignu di barca…» e quanto fosse vero il detto della gente di mare padre Natale Masuccio, gesuita e architetto, ebbe modo di sperimentarlo quando la feluca saracena, sulla quale si trovava come prigioniero (era stato catturato mentre veleggiava, al ritorno da Roma, verso la sua cara Messina), si trovò nel mezzo di una violenta tempesta.
Una di quelle burrasche che sanno di Apocalisse tra lampi, tuoni e scrosci di pioggia, con le onde che si sollevano alte come palazzi e ricadono devastanti sui navigli squassandone il fasciame, tra gomene che sibilano lamenti e il frusciare delle vele ridotte in brandelli, così come narravano visivamente i superstiti, nei dipinti degli ex voto, a memoria e ammonimento. Quietata la tempesta che li aveva scarrocciati a ridosso dell’isola di Lampedusa, Masuccio si sentì sollevato dalla paura di finire affogato e in pasto ai pesci, ma ancora di più, allorché vide dirigersi verso la feluca, una formosa galera con le sventolanti insegne dei Cavalieri di Malta e le croci dipinte sulle vele panciute, vele amiche di nave possentemente armata, che venne presto all’arrembaggio, vittoriosamente concluso dopo un accanito corpo a corpo. La feluca quindi fu catturata e ognuno dei prigionieri cristiani liberati ringraziò il Cielo e il proprio santo protettore, mentre ai saraceni non rimaneva altro che imprecare contro Allah e il suo distratto Profeta!
Riprese la navigazione la galera, puntando la prora verso l’isola dei Cavalieri Gerosolomitani e raggiunta La Valletta, Masuccio fu accolto benevolmente dal terribile Gran Maestro Alofio de Wignacourt, il tenace persecutore di Caravaggio, al quale non sfuggi la fama che godeva il gesuita, già noto per avere costruito, tra il 1596 e il 1606, i Collegi del suo Ordine nelle città di Trapani, Palermo e Messina.
Il Gran Maestro aveva giusto bisogno di un architetto di provata bravura per realizzare un suo progetto, già approvato dal «Sagro Collegio» dell’isola, il 9 gennaio di quell’anno, il 1610. Bisognava costruire un acquedotto che sollevasse La Valletta dalla cronica penuria d’acqua, poiché presto si esaurivano le cisterne e risultava insufficiente la sorgente di Marfa, le cui condotte a cielo aperto fornivano un liquido maleodorante e limaccioso.
Masuccio accettò l’incarico, dato che gli veniva offerta l’occasione di applicare le sue conoscenze di idraulica e infatti per evitare inquinamenti ed evaporazione e per mantenere fresche le acque addusse, attraverso gallerie e tubazioni di pietra, le sorgenti di Diar Chandul, di Aajan Cirani, Aajed Kajed, convogliandole in un canale che doveva, sfruttando la pendenza del terreno, per caduta, risalire i dislivelli, una sorta di condotta forzata e di vasi comunicanti, e il lavoro proseguì sino al villaggio di Attard. Qui vennero i primi nodi al pettine. Le tubazioni di pietra calcarea, saldate nelle giunture con una mistura che Masuccio sperimentò, cominciarono a cedere lasciando filtrare il prezioso liquido provocando la diminuzione della pressione; allora nacquero le contestazioni dei professori che sovrintendevano i lavori, i quali gli rimproverarono il mancato uso della antica e sperimentata malta pozzolanica, la sola che poteva tenere insieme i tubi fatti di debole pietra calcarea.
II nostro architetto non accettò le osservazioni c colse l’opportunità per tornarsene in patria insalutato ospite, lasciando ai soprastanti dell’opera, Andrea da Trapani, Giuseppe da Palermo e Giovanni Attard, maltese, il compito di arzigogolare altre soluzioni che l’architetto bolognese Bontadino de Bontadini accettò completando in quattro anni l’incompiuta di Masuccio con la tecnica desueta delle arcate, portando l’acqua, che venne alle fonti di La Valletta il 21 aprile del 1615, con cunettoni alti da terra ma scoperti.
Tornato a casa Masuccio fu gratificato dal Senato con l’incarico di completare l’acquedotto di Bordonaro, già inizialo nel 1581, per rimpinguare quello esausto del Camaro, ormai insufficiente per le nuove esigenze della città.
Alcune vicende però gli impedirono ancora una volta di condurre a termine il suo lavoro, poiché alla fine del 1611 si trovò nel mezzo di un contezioso tra il Senato e l’Ordine di Lojola: c’era della vecchia ruggine tra le due istituzioni circa la gestione dell’Università, acuita dalla presa di posizione dei gesuiti messinesi i quali domandavano completa autonomia dalla casa Professa di Palermo, cosicché in questa «sciarra» il povero Masuccio si ritrovò come «…agneddu ntra lijuni…»cci rimise la libertà.
Accadde infatti che Padre Giordano Cascino per arginare la supremazia dei confratelli messinesi, divenuti i più numerosi delle provincie siciliane, obbligasse i diaconi di recarsi in Palermo per ricevere l’ordinazione sacerdotale, dichiarando la casa messinese di «terza probazione», degradandola a solo Noviziato, decisione che fu contestata sia dai giurati, clero e nobiltà, come dal popolo, per cui il padre Provinciale fu costretto a rivedere le sue decisioni, anche perché nella vicenda intervennero in prima persona i padri, Masuccio, Moleti e Cariddi, i quali ribadirono di volere l’indipendenza «…alfìn di vivere segregati e con quiete ed evitare nella loro religione scandali e scissure…».
Non l’avessero mai detto! Padre Cascino si precipitò a Messina accettando umilianti condizioni dal Senato per mettere piede in città, e una volta dentro le mura, sottopose i confrati a giudizio e solo Masuccio fu condannato, poiché risultarono «innocui» Moleti e Cariddi, vittime della «…intemperanza della lingua.. » dell’architetto. Venne pure in Messina padre Mastrillo, forse per farlo abiurare come scrisse l’Aquilera, alla fine Masuccio «…fu cacciato per vendetta di Dio…» e ridotto allo stato laicale, gli furono tolti tonaca, firriolo e nicchio (copricapo a tre spicchi): erano trentuno anni che militava nella Compagnia di Gesù, si era dunque nel 1611 e da un anno era tornato da Malta; aveva cinquantanni. Quindi fu «…affidato alla custodia nel Collegio di Caltanissetta …alle cure di Mutio Vitelleschi…»
e al suo ritorno a Messina, dopo circa cinque anni di duro carcere, dove fu sottoposto ad «.. .acerbissime pene…» fu rinnegato dagli amici e dai conoscenti e coperto «.. .di tutte le miserie morì nel suo giorno con spettacolo memorabile di divina vendetta…».
Padre Aquilera calca la mano, dato che Masuccio invece fu bene accolto dai suoi concittadini e infatti non gli mancò il lavoro, e quando riappare nella sua città, nel 1616, ha modo di assistere alla inaugurazione del suo acquedotto col quale si rinvigorirono, il sabato santo del 1617, le cannelle della fonte di Orione e delle altre fontane che venivano collocate nei luoghi nevralgici dell’area urbana, con decorosi ornamenti di pietra, per dovizia e refrigerio delle oltre cinquantamila anime di cristiani, marrani, morischi, levantini ed ebrei che vivevano laboriosamente dentro le stesse mura.
Ancora Masuccio, come risulta da un contratto del 2 luglio del 1616, è impegnato nell’acquisto di «…petra che s’haverà di portare da Rodi per servizio del Sagro Monte dell’Azori…» il Monte di Pietà, che doveva sorgere ai piedi dei due colli fatali messinesi, la «Caperrina» (Montalto) e Roccaguelfonia (Cristo Re) sulla strada dei Monasteri, oggi via XXIV maggio.
Non mancarono per questa fabbrica le beghe giudiziarie provocate dal cavaliere Francesco Maria Macrì, il quale ottenne anche la sospensione dei lavori in quanto le fondamenta avevano danneggiato le sue case; ma raggiunto l’accordo con l’acquisto delle catapecchie, i lavori continuarono senza intoppi e probabilmente, quando alla fine del mese di agosto del 1619, Masuccio spirava, l’edificio doveva essere finito, e così come ancora si vede nella parte inferiore sfuggita all’ira del terremoto e alla bestialità umana, presenta nella facciata elementi di chiarezza compositiva unita a una eleganza strutturale nel segno della maturità raggiunta dal nostro architetto, espressa nel ritmo di una articolazione armoniosa tra pieni e vuoti, con alternarsi di finestre e nicchie con al centro un maestoso portale con colonne bugnate e il timpano triangolare spezzato, sopra il quale si avanza il grande balcone delle mensole finemente intagliate.
Masuccio aveva già profuso il suo talento artistico, nutrito di manierismo secondo un gusto desunto dal Vasari e dall’Ammannati, nella costruzione del nuovo edificio della Università, nella piana di Santa Croce, vicino alla fiumara della «taschini» (fringuelli) alla Porta di Legna, di fronte il Grande Ospedale, oggi sede del Tribunale di Messina. Sistema qui l’ordito architettonico secondo i criteri stilistici appresi durante il primo soggiorno romano, nel 1581, quando all’età di venticinque anni, preferiva allo studio delle discipline ecclesiastiche, il disegno e la geometria, annotando le opere dei grandi artefici che avevano adornato la capitale del Cristianesimo, e la lettura del Collegio Universitario ci viene offerta dalla incisione di Francesco Sicuro, per la parte che si affacciava sull’odierna via
Giacomo Venezian, dove nel recinto dell’attuale edificio si conserva il solo portale come unica reliquia del complesso.
Nel prospetto di tale fabbrica, risaltano le modulazioni del bugnato nelle campiture delle masse murarie, come nelle paraste, colonne e stipiti, quanto nella annessa chiesa di San Giovanni Battista, aperta al culto molto tardi, nel 1747, si riconfermano i ritmi compositivi nel susseguirsi verticale delle colonne abbinate fortemente aggettanti, i cui esiti plastici si esaltano in un dinamico giuoco chiaroscurale, che prosegue, oltre la sommità trabeata, nella cupola dell’alto tamburo poligonale, quasi a preannunziare le rigogliose forme che doveva realizzare Guarino Guarini in Messina, nel 1655.
Masuccio in sostanza si rivela una personalità di rilievo, nel panorama artistico della Sicilia barocca, quasi dimenticata, ma che il recente restauro del Monte di Pietà ha riproposto all’attenzione dei suoi concittadini e degli studiosi, i quali avrebbero potuto attingere interessanti testimonianze nel suo testamento che dettò al notaio Francesco Manna, registrato nel mese di agosto del 1619.
Purtroppo quel foglio manca, non è stato più rintracciato, un evento capriccioso che lo fa tacere oltre la morte, ma di Masuccio ci parlano le sue opere.
Fortunato Pergolizzi
Parentesi anno I n.0 –dicembre1988 /gennaio1989