Associazione Culturale Parentesi

Fondata a Messina nel 1989.- “Parentesi” Rivista bimestrale di politica, economia, cultura e attualità diretto da Filippo Briguglio. Reg. Trib di Messina 18/02/1989. Iscritto nel Registro Nazionale della Stampa con n°3127 Legge 5881 n° 416.

Messina : IL ’48 DIMENTICATO

Messina delle istituzioni cittadine ha ricordato una delle pagine più alte della storia risorgimentale del nostro paese. Lo stato di abbandono in cui versano i monumenti superstiti dell’epoca unitaria.

di Bruno Villari

   Centoquarant’anni fa i Messinesi vissero uno dei momenti più epici della loro storia, ma subirono anche una pesante punizione militare paragonabile soltanto alle lugubri giornate del 1678,quando le truppe spagnole riconquistarono la città dopo quattro anni di umiliazioni e di rovesci.

Tutto era cominciato il 1 settembre 1847 alle 16.30 circa. A quell’ora due gruppi di cittadini guidati da Luigi Micali e Antonino Caglià Ferro,dopo aver attaccato le stazioni doganali di Pozzoleone e dì Porta Realbasso, erano avanzate lungo la via Ferdinanda uccidendo un gendarme a cavallo e un granatiere di una pattuglia in perlustrazione.

Il gruppo aveva quindi piegato verso la piazza Duomo dove si era convenuto d’incontrarsi con le squadre, capeggiate da Antonino Pracanica, provenienti da Moltalto, dal Portalegni e dai quartieri meridionali.

Alla 17.15 circa i cittadini radunati si potevano calcolare intorno a duecento, alcuni dei quali armati soltanto dei coltelli «requisiti» in una macelleria della Giudecca.

Il comando militare della cittadella, non conoscendo la consistenza e la dislocazione dei rivoltosi, allestì una forza di pronto intervento che fu divisa in due colonne mobili, una delle quali, di circa ottanta uomini, risalì la via Austria, si scontrò con i ribelli alle Quattro fontane e ne ebbe presto ragione, non solo per maggiore disciplina e precisione di tiro, ma anche perché gran parte dei patrioti, a cominciare dai portabandiera, si dileguarono alla spicciolata fin dai primi scambi.

Il gruppo che si era battuto con maggiore determinazione (non più di cinquanta uomini) lasciò la piazza dopo circa mezz’ora di fuoco ritirandosi verso il rione Portalegni e guadagnando le alture di S. Corrado.

La temuta repressione non fu, in apparenza, molto severa. La maggior parte degli imputati fu prosciolta in istruttoria. Alcuni furono condannali in contumacia e successivamente graziati.
Gli imputati presenti al processo furono soltanto tre: l’abate Giovanni Krymi, Giuseppe Pulvirenti e Giuseppe Sciva. Krymi e Sciva furono condannati a morte. Pulvirenti rinviato per un supplemento d’indagine. La pena capitale dell’abate fu commutata in ergastolo, in applicazione di un accordo fra Santa Sede e Napoli al quale fece appello l’arcivescovo Villadicani. (Krymi fu scarcerato nel 1848). Sotto il piombo del plotone d’esecuzione cadde soltanto il ventisettenne Giuseppe Sciva che respinse la grazia offertagli a condizione che denunciasse i complici. A lui la città non ha mai reso l’onore dovuto agli croi. Ma la patria dimenticò presto anche Paolino e Giovanni Grillo, padre e figlio, sventurati entrambi. Paolino trovò la forza di dare il veleno al figlio ferito e prigioniero, per sottrarlo alla fucilazione!
Malgrado i successivi atti di clemenza che portarono al proscioglimento di tutti i condannati, l’episodio del 1. Settembre e la fucilazione di Sciva avevano risvegliato anche nei cittadini più neghittosi sentimenti patriottici e di malcontento che incoraggiarono una ripresa dell’iniziativa del partito liberale. Il 5 gennaio giunse da Napoli Giuseppe La Masa che conferì con Michele Bertolami, Gaetano Scoppa e Giuseppe D’Anioni e proseguì per Palermo.

Il giorno dopo, sulla porta di una bottega del Corso, comparve un manifesto propagandistico inneggiante all’unità d’Italia. E quando la polizia tentò di rimuoverlo la gente glielo impedì minacciosamente sfidando finalmente l’autorità dello stato che, peraltro, sembrava ogni giorno più fiacca sotto l’incalzante azione propagandistica dei liberali. E perfino i militari cominciarono a tremare. Il borioso generale Landi, temendo un attentato, preferì lasciare l’alloggio della città e ritirarsi nel più sicuro rifugio della cittadella.

Quando giunse la notizia che Palermo era insorta, in città si respirava già aria di rivolta e di grandi attese. Mancavano però le armi da opporre ai quattromila e cinquecento cacciatori napoletani e ai trecento cannoni piazzati sugli spalti dei forti che cingevano l’area urbana.
Il 25 gennaio una parata di truppe con finalità intimidatorie si  trasformò in una farsa, che poteva volgere in tragedia se i soldati avessero reagito alle provocazioni e al dileggio dei messinesi. Il giorno 28 trecento cittadini eminenti, riuniti al Casino della Borsa, nominarono un Comitato di pubblica sicurezza presieduto dall’avvocato Gaetano Pisano che deliberò, come primo atto, la chiamata generale alle armi e la convocazione d’urgenza degli uomini designati ai comandi militari.

Durante la stessa notte furono inviati messaggeri nella provincia per ordinare il raduno delle squadre.

Le forze cittadine furono divise in tre gruppi: il «S. Gregorio» (punto di riunione alla Caperrina), che raccoglieva Zaera, Portalegni e parte dell’Arcivescovado; il «Largo Boccetta» (punto di riunione sulle alture lungo il torrente), che raccoglieva il rimanente Arcivescovado e il Priorato sud; il «S. Leone» (punto di riunione sulla spianata dei Cappuccini), che raccoglieva il rione Trapani, il Priorato nord, il S. Leone e il Ringo.

Quella notte i tre raggruppamenti attesero l’alba fatale del 29 gennaio, vegliando in armi sulle colline.

La mattina successiva il sole illuminò una città piena di bandiere tricolore e di uomini fieri che si aggiravano per le strade agitando un’arma e gridando invettive contro la tirannide borbonica.

Iniziava così un lungo ed esaltante periodo di libertà, ma anche di sacrifici, di privazioni, di stenti e di morte, culminato nell’olocausto di settembre. In quei terribili giorni in cui la città fu data alle fiamme, malgrado gli eccidi, i saccheggi, le violenze e la sconfitta, nessuno parlò mai di resa. Come una fiera che azzanna finché ha vita così i messinesi si difesero casa dopo casa preferendo la fuga e il suicidio alla resa.
La patria non ha purtroppo reso giustizia a quella grande rivolta che non ha eguali nella storia del risorgimento del nostro paese. E anche le istituzioni cittadine hanno perso l’occasione per riaffermare, nella commemorazione centoquarantennale di quegli avvenimenti, una vocazione ed un primato di italianità che danno diritto a Messina di potere proclamare solennemente di avere conquistata la libertà per opera propria e non per virtù aliena.

I segni di questa disattenzione sono visibili anche nello stato di abbandono in cui versano i monumenti risorgimentali del Gran Camposanto (il colonnato del Pantheon con i sarcofagi di Bisazza, Natoli e La Farina; la tomba e il busto del colonnello Tommaso Landi, uno dei protagonisti del ’48), e quelli di altri luoghi pubblici: il busto di Nino De Leo alla villa Mazzini, danneggiato da farabutti che lo hanno precipitato dalla stele un paio d’anni fa, è stato raccolto,
forse per il restauro, da un automezzo municipale e non ancora rimesso a posto.

Bruno Villari

Parentesi anno I dicembre1988/ gennaio 1989

 

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